La servitù d’uso pubblico rientra nella categoria dei diritti reali pubblici di godimento costituiti su immobili di proprietà privata ed è disciplinata dall’art. 825 c.c.
Il diritto in questione presuppone una publica utilitas, ossia l’oggettiva idoneità del bene privato a soddisfare una esigenza comune ad una collettività indeterminata di cittadini.
La costituzione del succitato diritto può avvenire per dicatio ad patriam o per atto scritto, ossia convenzione tra ente pubblico e privati. Sul punto, i requisiti richiesti dalla consolidata giurisprudenza di legittimità (da ultima Cassazione Civile, Sez. 2, n. 28632 del 29.11.2017) sono chiari laddove affermano che: “la costituzione di una servitù pubblica per effetto della c.d. “dicatio ad patriam” (consistente nel comportamento del proprietario che, se pur non intenzionalmente diretto a dar vita al diritto di uso pubblico, metta volontariamente, con carattere di continuità e non precariamente, un proprio bene a disposizione della collettività) non può essere desunta dal solo fatto che il proprietario abbia consentito il passaggio pubblico su parte del proprio fondo (Cass., Sez. 2, n. 4597 del 22/03/2012); un’area privata, infatti, può ritenersi assoggettata a servitù pubblica di passaggio, acquistata per usucapione, solo allorché concorrano contemporaneamente le seguenti condizioni: 1) l’uso generalizzato del passaggio da parte di una collettività indeterminata di individui, considerati “uti cives” in quanto portatori di un interesse generale, non essendo sufficiente un’utilizzazione “uti singuli”, cioè finalizzata a soddisfare un personale esclusivo interesse per il più agevole accesso ad un determinato immobile di proprietà privata; 2) l’oggettiva idoneità del bene a soddisfare il fine di pubblico interesse perseguito tramite l’esercizio della servitù; 3) il protrarsi per il tempo necessario all’usucapione (Cass., Sez. 2, n. 10772 del 09/07/2003). Questa Corte ha ancora affermato che, ai fini dell’assoggettamento per usucapione di un’area privata ad una servitù di uso pubblico, è necessario che l’uso risponda alla necessità ed utilità di un insieme di persone, agenti come componenti della collettività, e che sia stato esercitato continuativamente per oltre un ventennio con l’intenzione di agire “uti cives” e disconoscendo il diritto del proprietario (Cass., Sez. 2, n. 11346 del 17/06/2004); ed ha precisato che le servitù di uso pubblico possono essere acquistate mediante il possesso protrattosi per il tempo necessario all’usucapione anche se manchino opere visibili e permanenti destinate al loro esercizio, essendo il requisito dell’apparenza prescritto dall’art. 1061 cod. civ. soltanto per le servitù prediali (Cass., Sez. Un., n. 20138 del 03/10/2011)”.
Dunque affinché un ente pubblico possa ritenere di aver acquisito una servitù pubblica su un determinato bene immobile, dovrà dimostrare contemporaneamente tre requisiti: 1) l’uso generalizzato di questo bene da parte di una collettività di individui, definiti uti cives, 2) l’idoneità del bene a soddisfare il pubblico interesse tramite la servitù, 3) il protrarsi dei venti anni necessari all’usucapione. In mancanza di uno soltanto di questi requisiti, l’ente pubblico non potrà in alcun modo invocare una servitù d’uso pubblico.