Partiamo da una premessa: quello che sta accadendo nel mondo del calcio è già successo in passato. Dunque appare opportuno rispolverare la memoria ai giovani tifosi oppure a chi avesse dimenticato cosa accadde 20 anni fa.
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Ritorno al futuro: come si creò la bolla finanziaria.
Sono i ruggenti anni 2000: l’inizio del nuovo millennio portò ad una clamorosa impennata delle c.d. plusvalenze, già in ascesa nelle stagioni precedenti. Cosa sono? E’ presto detto: il prezzo di ogni giocatore viene imputato nel conto economico del bilancio d’esercizio dividendo il costo storico di acquisto per gli anni di contratto. Questa operazione da vita alle quote d’ammortamento che anno dopo anno riducono il costo storico d’acquisto, generando il c.d. valore di carico netto o attualizzato. Se il prezzo di cessione è più basso del valore di carico attualizzato, allora si genera una minusvalenza pari alla differenza tra i due valori. Al contrario, se il prezzo di cessione è più alto del valore di carico attualizzato, allora si genera una plusvalenza. Ad esempio un giocatore costato 20 milioni che firma un contratto di 5 anni, avrà una quota ammortamento annuale pari a 4 milioni. Quindi dopo un anno avrà un valore di carico residuo pari a 16 milioni. Se in quel momento viene venduto a 17 milioni, genera una plusvalenza di 1 milione, altrimenti se viene venduto a 10 milioni, genera una minusvalenza di 6 milioni.
Nel dettaglio possono generarsi reciproche plusvalenze a seguito di scambi (o cessioni incrociate), oppure plusvalenze secche a seguito di normale cessione. In entrambi i casi si avrà il classico effetto positivo, tuttavia negli scambi (o cessioni incrociate) il saldo relativo alla movimentazione di denaro per cassa è inesistente o quasi, mentre gli ammortamenti comunque vanno imputati tra i costi. Nelle plusvalenze secche, invece, vi è movimentazione per cassa ed anche un aumento degli ammortamenti per chi acquista. Quindi negli scambi (o cessioni incrociate) il favore è reciproco ed immediato, mentre nelle normali cessioni il vantaggio contabile lo ha soltanto chi cede.
Tra il 2001 ed il 2003 nel calcio italiano si effettuarono tantissime operazioni del primo tipo (plusvalenze reciproche, anche dette “a specchio”, alcune agevolate anche dalle compartecipazioni, poi eliminate) che portarono la bolla finanziaria a raggiungere la soglia degli 800M di plusvalenze al termine della stagione 2001/2002. Soldi preziosi che evitarono il crac di molte società.
Infatti la plusvalenza, essendo a tutti gli effetti un provento, riduce i deficit di bilancio. I problemi però sono due: 1) la squadra che acquista il giocatore spalma il costo di acquisto su più anni, aumentando gli ammortamenti nel proprio bilancio; 2) per chi vende, invece, l’effetto positivo è limitato al singolo esercizio, quindi per le squadre di calcio il maquillage contabile termina il 30 giugno di ogni anno. Poi bisogna ricominciare da capo.
Tutte le squadre si resero protagoniste di plusvalenze clamorose: Milan, Inter, Roma, Juventus, Lazio, Parma, Fiorentina. Le c.d. “sette sorelle” non si risparmiarono e vale la pena ricordare alcuni casi di scuola: Panarelli, Schettino e Paoletti ceduti dalla Roma al Torino per 24,5M; Lazio e Parma si scambiarono Crespo (valutato 100 miliardi), Almeyda e Conceicao (valutati 45 e 35 miliardi); Coco e Umtiti furono ceduti dal Milan all’Inter per 28,8M e 12,4M, stesso percorso per Paolo Ginestra valutato 3,5M e Brncic valutato 9,6M (tutti nella stagione 01/02); Brighi fu ceduto dalla Juve al Parma per 10M e poi riacquistato poco dopo; e così via.
Fino a quando Giuseppe Gazzoni Frascara, l’allora patron del Bologna, stanco di assistere a quello che veniva definito “doping amministrativo”, denunciò tutto alla magistratura. A quel punto gli inquirenti iniziarono a spulciare i bilanci di moltissime società, che peraltro avevano anche debiti tributari molto sostanziosi. Ne emerse un quadro drammatico: le plusvalenze da sole riuscirono nell’intento di ridurre i deficit di bilancio dell’80%. Senza quel maquillage contabile, quindi, molte proprietà avrebbero dovuto ripianare perdite mostruose e qualcuna probabilmente avrebbe dovuto portare i libri in Tribunale.
La “pezza” messa dal governo: in che modo i club si sono salvati.
L’allora governo Berlusconi, attenzionato della questione, sistemò la problematica con degli interventi normativi.
Il primo intervento è il c.d. Decreto salva-calcio o spalma debiti. Con il decreto legge 24 dicembre 2002 n. 282, poi convertito dal parlamento con la legge 21 febbraio 2003 n. 27, il governo consentì alle squadre di spalmare in dieci anni gli ammortamenti dei giocatori, cresciuti a dismisura a causa delle plusvalenze. Quindi il doppio rispetto ai canonici cinque anni, ossia la durata massima di un contratto tra club e calciatore.
Tuttavia l’adozione di questo provvedimento non piacque all’Unione Europea che aprì una procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia, paventando la violazione dell’articolo 87 del Trattato UE in materia di aiuti di stato. Problematica che venne risolta soltanto con l’adozione del Decreto Legge n. 115 del 30 giugno 2005, convertito dalla Legge n. 168 del 17 agosto 2005, che ridusse da dieci a cinque gli anni del periodo di ammortamento delle svalutazioni.
Nel frattempo, la magistratura continuò le indagini fino al 2008, quando il GUP di Milano, Paola Di Lorenzo, prosciolse dall’accusa di falso in bilancio Adriano Galliani, vicepresidente vicario e amministratore delegato del Milan, Rinaldo Ghelfi, vicepresidente dell’Inter, Mauro Gambaro, ex dirigente nerazzurro, e contestualmente prosciolse anche i due club. Il proscioglimento arrivò grazie a due fattori: la prescrizione per il bilancio dell’inter (“non luogo a procedere in relazione alle imputazioni concernenti il bilancio al 30/6/2003 perché l’azione penale non poteva essere esercitata per essere il reato presupposto anteriormente prescritto”) e un secondo intervento legislativo – di cui parlerò tra poco – grazie al quale i dirigenti di Milan e Inter furono assolti perché il fatto non costituì reato (“dichiara non luogo a procedere nei confronti degli imputati Galliani Adriano, Ghelfi Rinaldo Antonio e Gambaro Mauro, in relazione a tutte le imputazioni a loro ascritte, perché il fatto non costituisce reato”). Considerazione assai diversa rispetto al “fatto non sussiste”, ossia la formula piena con cui ogni indagato spera di essere assolto. Infatti l’assoluzione con la formula “perché il fatto non costituisce reato” in altre parole sta a significare che il fatto è avvenuto ma non ha rilevanza penale.
Per quale motivo? Semplice: pochi anni prima il governo Berlusconi modificò la legge sul falso in bilancio, in particolare gli artt. 2621 e 2622 c.c.
I reati di false comunicazioni sociali, infatti, negli ultimi venti anni hanno subito due importanti interventi legislativi. Il primo intervento avvenne con il D. lgs 61/2002, conseguenza della legge n. 366 del 2001 con cui il Governo venne delegato all’emanazione di uno o più decreti legislativi volti a riformare la disciplina delle società di capitali e degli illeciti penali e amministrativi riguardanti le società commerciali.
Senza scendere in tediosi dettagli riguardanti la riforma, e concentrandoci su ciò che interessa ai fini di questo articolo, grazie a questa modifica legislativa per il c.d. “reato di falso in bilancio” (reato proprio, quindi imputabile solo a determinate persone, ossia gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori, cioè coloro che nella società svolgono funzioni di amministrazione attiva e di controllo), divenne necessario il dolo specifico. Dunque non solo l’autore deve essere mosso dalla precisa e consapevole volontà di fornire false informazioni (o di occultare doverose informazioni vere), ma anche dall’altrettanto preciso e consapevole intento di trarre un profitto per sé o per altri (anche per la stessa società).
Con il secondo intervento legislativo, attuato per mezzo della legge 27 maggio 2015 n. 69, l’elemento soggettivo è rimasto immutato ed è il risultato di una struttura complessa, così come confermato anche dalla Suprema Corte di Cassazione (sentenza 21672 del 16/5/2018) laddove afferma che “l’elemento soggettivo presenta una struttura complessa comprendendo il dolo generico (avente a oggetto la rappresentazione del mendacio), il dolo specifico (profitto ingiusto) e il dolo intenzionale di inganno dei destinatari, il predetto elemento soggettivo non può ritenersi provato, in quanto «in re ipsa», nella violazione di norme contabili sulla esposizione delle voci in bilancio, né può ravvisarsi nello scopo di far vivere artificiosamente la società, dovendo, invece, essere desunto da inequivoci elementi che evidenzino, nel redattore del bilancio, la consapevolezza del suo agire abnorme o irragionevole attraverso artifici contabili”.
Il gattopardo: «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi».
Nella seconda metà degli anni 2000 la diffusa pratica delle plusvalenze sembrava essere regredita. Fino a quando la UEFA non ha pensato di introdurre un nuovo meccanismo di controllo finanziario sui bilanci dei club: l’ormai celebre Fair Play Finanziario, approvato nel 2010 ed entrato a regime nel 2013. Come tutti sanno, il monitoraggio effettuato da Nyon costringe le società a spendere quanto guadagnano, nel rispetto di parametri stringenti che valutano a ritroso i bilanci negli ultimi tre esercizi. Quindi più guadagni, più puoi spendere e conseguentemente – se riesci a raggiungere il pareggio di bilancio o a rientrare nello scostamento tollerato pari a meno 30M – potrai partecipare alle competizioni europee.
Un controllo di questo tipo, limitatamente ai top club che vogliono competere per i traguardi più grandi e che quindi necessitano di spese maggiori, induce a gonfiare gli esercizi con entrate sostanziose, in modo che il bilancio soddisfi i requisiti imposti dalla UEFA. E secondo voi quale modalità potevano individuare le società per far quadrare i conti? Certamente non i diritti TV che vengono venduti collettivamente. Bravi, avete capito: plusvalenze strikes again! Ecco dunque la seconda ondata del maquillage contabile che aveva caratterizzato i primi anni 2000. La strada individuata dai club per rispettare i parametri imposti da Nyon è la medesima di 20 anni fa: ipervalutare giocatori per generare l’effetto positivo e sistemare i conti, dunque giocare la CL e poter contare su altro denaro: i premi UEFA. Una droga necessaria per i conti dei club. La novità è che, insieme alle plusvalenze, molti club hanno trovato un altro escamotage: gli sponsor con parti correlate (Link), ossia società indirettamente collegate al proprietario grazie alle quali viene iniettato denaro in società sotto forma di sponsor e non di aumento di capitale (osteggiato da Nyon).
Elaborazione dati PWC su bilanci ufficiali al 30/6/2018:
Tutto questo, quindi sia plusvalenze che sponsorizzazioni con parti correlate, spesso genera poca movimentazione di denaro per cassa (in altre parole si registrano introiti solo nel conto economico) ed inoltre causa un innalzamento progressivo del debito finanziario, in quanto l’aumento parallelo dei costi di gestione dei giocatori (stipendi e ammortamenti) deve essere garantito in qualche modo. Ovviamente plusvalenze e sponsor con parti correlate rappresentano fonti di guadagno che non possono essere considerate come ricavi “stabili” dato che non si basano sul potere attrattivo o sul brand del club, ma unicamente sulla capacità di generare plusvalenze o sponsor grazie al supporto del proprietario.
Tecnicamente, in realtà, questi guadagni stati definiti dalla Cassazione, con tre ordinanze gemelle nel 2019, come proventi ordinari (Link). E quindi vanno tassati. Ma ciò non toglie che l’ordinarietà di simili guadagni non modifica la precarietà dei bilanci aggiustati grazie ad essi. Quindi bilanci costruiti su palafitte, che potrebbero crollare da un momento all’altro non appena quei meccanismi da cui dipende il club dovessero terminare. Ed è qualcosa di possibile visto che la capacità di generare ricavi non è indipendente come invece dovrebbe essere. La prova l’abbiamo avuta nel 2003, quando si rese necessario l’intervento del Governo Berlusconi per salvare molte società dal crac finanziario.
Tutto a causa di un meccanismo che in apparenza premia i club virtuosi ma che invece incentiva all’abuso di maquillage contabile, a lungo andare necessario per rispettare le regole imposte da Nyon e allo stesso tempo competere per i traguardi più importanti.
Elaborazione dati PWC su bilanci ufficiali al 30/6/18:
Com’è possibile notare, dal 2013 al 2018 con l’aumentare degli ammortamenti – oltre ai debiti – sono aumentate anche le plusvalenze, necessarie a coprire i nuovi costi. Fino al punto che al 30/6/2018 le plusvalenze pari a 713M hanno coperto tutte le spese per ammortamenti, pari alla stessa cifra. In assenza di quelle plusvalenze, o buona parte di esse, l’ammanco nei bilanci dei club sarebbe stato mastodontico.
La soluzione, in questo caso, essendo complicatissimo per le procure dimostrare il falso in bilancio per i motivi già spiegati, non può che arrivare attraverso una riforma del FFP (Link) oppure un intervento del nostro legislatore che dovrebbe nuovamente spalmare i costi del parco giocatori delle società. Ma quest’ultima trovata, in mancanza di una riforma a livello UEFA, avrebbe effetti temporanei. Sarebbe auspicabile, quindi, una normativa che tassi in maniera esemplare le plusvalenze (in maniera ben più alta di come fa oggi) oppure un meccanismo alternativo – anche a livello federale – che progressivamente ne disincentivi l’utilizzo, oggi arrivato ai livelli di 20 anni fa: infatti al 30 giugno 2018 il calcio italiano ha generato 777M di plusvalenze, di cui 713 solo nel professionismo. E le cose non sembrano essere cambiate al 30 giugno 2019 e 2020, basti osservare le ultime operazioni di mercato balzate agli onori della cronaca, chiuse sul filo di lana negli ultimi giorni di giugno.
In caso contrario, quindi se non verrà messo un freno a queste pratiche contabili, assisteremo presto alla deflagrazione dell’ennesima bolla finanziaria.
Avv. Felice Raimondo
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