Un nuovo terremoto scuote il mondo del calcio: la Procura della Repubblica di Torino sta indagando su un giro di plusvalenze sospette generate dalla Juventus. L’importo è mastodontico, si parla di 282 milioni di euro che avrebbero “aggiustato” in modo illecito i bilanci bianconeri negli anni 2019/2020/2021 (Link).
Lo scrivente ha già approfondito l’argomento in data 30 giugno 2020 (Link) per cui l’articolo odierno può essere considerato un’appendice che specifica alcuni aspetti.
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Dalle informazioni trapelate sui principali mezzi di informazione, i dirigenti della Juventus sarebbero sotto indagine per i reati di false comunicazioni sociali (art. 2621 codice civile, da 1 a 5 anni di reclusione) ed emissione di fatture per operazioni inesistenti (articolo 8 del Dlgs n. 74/2000. da 4 a 8 anni di reclusione). Sul piano sportivo, invece, gli illeciti contestabili sono di natura economica e disciplinati dall’art. 31 del Nuovo Codice di Giustizia Sportiva, rubricato “Violazioni in materia gestionale ed economica”. Questo articolo prevede diverse fattispecie, dalla meno grave alla più grave, con sanzioni nei confronti del club che vanno dall’ammenda fino alla penalizzazione di punti in classifica ed all’esclusione dal campionato di competenza e revoca dell’assegnazione del titolo di campione d’Italia. Chiaramente anche i dirigenti rischiano una sanzione, nello specifico l’inibizione di diversa durata a seconda della gravità dell’illecito accertato.
In questo articolo mi limiterò ad analizzare le conseguenze di natura sportiva, dato che il filone avviato dalla magistratura ordinaria, come già detto nel precedente articolo, prevede la prova del dolo specifico. Proprio per questo motivo, i dirigenti di Milan e Inter nel 2008 furono prosciolti perché il fatto non costituì reato (“dichiara non luogo a procedere nei confronti degli imputati Galliani Adriano, Ghelfi Rinaldo Antonio e Gambaro Mauro, in relazione a tutte le imputazioni a loro ascritte, perché il fatto non costituisce reato”). Ciò a causa della precedente modifica degli articoli 2621 e 2622 c.c. da parte del Governo Berlusconi che costrinse i magistrati ad assolvere gli imputati, dato che il fatto non ebbe rilevanza penale.
Il processo sportivo che venne intentato a Milan e Inter nel 2008 si chiuse in pochissimo tempo con una richiesta di patteggiamento ai sensi del vigente art. 23 CGS. Grazie a ciò le due società vennero condannate al pagamento di un’ammenda pari a 90.000 euro cadauna, ed i dirigenti coinvolti al pagamento di ammende ridotte (Galliani pagò 60.000 euro). All’epoca la Procura Federale guidata da Palazzi incolpò i dirigenti in relazione a due illeciti previsti dal Codice di Giustizia Sportiva, ossia l’art. 1, comma 1 (violazione dei principi di lealtà, probità e correttezza per la condotta di abnorme e strumentale valutazione dei diritti alle prestazioni sportive di calciatori) e art. 8, comma 1 (contabilizzazione nel bilancio chiuso al 30 giugno 2003 delle plusvalenze derivanti dalla stipula dei contratti di cessione con corrispettivi di gran lunga superiori a quelli realmente attribuibili) e le società Inter e Milan per responsabilità diretta. Attenzione: a nessuno venne contestata l’accusa più pesante in base all’art. 8 comma 4 , ossia quella di avere tentato di iscriversi al campionato in modo fraudolento. In quel caso i club avrebbero rischiato l’esclusione dal campionato.
Dieci anni dopo è toccato ad un altro club, ossia il Chievo Verona di Campedelli. Anche stavolta vennero contestate numerose plusvalenze, in particolare quelle incrociate col Cesena. La Procura Federale nel 2018 calca la mano ed accusa i club coinvolti non solo degli illeciti economici meno gravi ma anche di quello più grave a cui scamparono Milan e Inter. Nel dettaglio la Procura contestò “l’avvenuta violazione, fra l’altro, del disposto dei commi 1, 2 e 4 dell’art. 8 del CGS, per avere le stesse contabilizzato nei bilanci societari del 30 giugno e 31 dicembre 2014, 30 giugno 2015, 30 giugno 2016 e 30 giugno 2017, plusvalenze fittizie ed immobilizzazioni materiali di valore superiore al massimo consentito, al fine di far apparire un patrimonio netto superiore a quello realmente esistente alla fine di ciascun esercizio e di ciascun semestre, così da ottenere la licenza nazionale e l’iscrizione ai rispettivi campionati”.
Il processo sportivo, però, si concluse con condanne ridotte (3 punti di penalizzazione e ammenda) rispetto a quelle chieste dal Procuratore Federale (15 punti di penalizzazione). Infatti venne riconosciuta l’avvenuta violazione da parte dei vertici del Chievo Verona delle disposizioni di cui all’art. 1-bis, commi 1 e 5, ed 8, commi 1 e 2, CGS (oggi art. 31, comma 1) con conseguente sanzione anche a carico della medesima società in virtù del disposto dell’art. 4, commi 1 e 2.
In altre parole il Chievo è stato condannato per un “semplice” illecito amministrativo:
Venne quindi esclusa l’ipotesi più grave, ossia quella prevista dal comma 4 dell’art. 8 del vigente CGS (oggi articolo 31, comma 2) a cui sono collegate le sanzioni più pesanti:
Per questo motivo il Procuratore Federale impugnò le sanzioni definendole non congrue rispetto agli illeciti commessi.
Le argomentazioni sostenute dalla Procura federale, sia nei propri deferimenti che nel ricorso di secondo grado, prendono le mosse dalla constatazione di una serie di circostanze di fatto non contestate fra le parti; in particolare, la Procura federale evidenzia che:
a) nelle stagioni sportive 2014/15, 2015/16, 2016/17 e 2017/18, tra alcune società (ivi compresa l’appellante Chievo) vi sono stati numerosi trasferimenti dei diritti di atleti, ceduti ed acquistati per somme considerevoli;
b) gli scambi dei diritti sono avvenuti in modalità incrociata, nel senso che ogni scambio è stato accompagnato da un altro di segno contrario avente ad oggetto un diverso atleta (nel senso che le due società hanno assunto vicendevolmente il ruolo di cedente e cessionaria) di valore pressoché identico al precedente, con conseguente compensazione tra i prezzi di acquisto e di vendita;
c) nella quasi totalità dei casi la cessione di tali diritti ha riguardato giovani atleti non professionisti, con i quali la società cessionaria non ha successivamente stipulato alcun contratto;
d) gli atleti i cui diritti sono stati acquistati non sono stati impiegati dalle società acquirenti (neanche nel settore giovanile) ma sono stati quasi immediatamente trasferiti temporaneamente e gratuitamente alla medesima cedente ovvero a società dilettantistiche, spesso ubicate nella medesima regione della cedente.
Ciò posto, nell’esaminare il ricorso della Procura, la Corte Federale d’Appello a Sezioni Unite afferma preliminarmente che il principio “nullum crimen, nulla poena sine lege” costituisce un principio di civiltà giuridica che non solo permea la Carta costituzionale ma costituisce valore di civiltà immanente in tutto l’ordinamento giuridico – ivi compreso quello sportivo – con riferimento non solo alle disposizioni penali ma a tutte quelle lato sensu sanzionatorie.
In particolare, tale principio impone che la fattispecie che descrive la condotta proibita sia formulata con sufficiente chiarezza (c.d. principio di tassatività), atteso che la conoscenza (o conoscibilità) piena e puntuale degli elementi costituivi della condotta sanzionata costituisce condizione necessaria per il sorgere della responsabilità personale in capo all’autore dell’illecito.
Alla luce di tali principi, secondo la Corte può facilmente evidenziarsi come le fattispecie descritte dai commi 1 e 2 del citato art. 8, CGS, differiscano in modo netto da quella di cui al successivo comma 4. Infatti, mentre nel primo caso la violazione delle norme contabili è punita in quanto tale, nel secondo caso tale violazione è punita solo laddove i dati contabili alterati abbiano permesso l’iscrizione – altrimenti non possibile – al campionato.
Ne consegue che, ai fini della contestazione della violazione del suddetto art. 8, comma 1 e 2, CGS, è sufficiente la prova dell’alterazione dei dati contabili o di altro comportamento idoneo ad eludere la normativa federale in materia gestionale o economica, senza alcuna necessità di precisa quantificazione dell’importo alterato.
Nell’ipotesi di cui al citato comma 4 del medesimo art. 8, invece, occorre non solo la prova dell’alterazione dei dati contabili ma anche l’esatta quantificazione dell’importo illecitamente alterato, così da dimostrare che, in assenza di tale alterazione, sarebbe stata preclusa alla società autrice dell’illecito l’iscrizione al campionato.
Da quanto sopra esposto, continua la Corte d’Appello, derivano due conseguenze. In primo luogo, data la differenza di contenuti tra le due fattispecie, dall’accertamento della violazione della prima (art. 8, commi 1 e 2) non può sic et simpliciter arguirsi la prova della violazione della seconda (art. 8, comma 4).
In secondo luogo, perché la fattispecie regolata dall’art. 8, comma 4, CGS, sia conforme al citato principio di tassatività della fattispecie sanzionatoria, occorre che i criteri in base ai quali si perviene alla valutazione e stima dell’an e del quantum della supposta falsificazione siano certi e conoscibili, in quanto derivanti da disposizioni normative ovvero codificate in precise e note regole tecniche operanti del settore.
Ovviamente, laddove l’alterazione dei dati di bilancio derivi da un dato oggettivo e facilmente verificabile (quale, ad esempio, l’iscrizione a bilancio di un valore difforme da quello presente nel contratto di cessione) il problema non si pone; ben più complessa è l’ipotesi (quale quella de qua) in cui venga contestata non la conformità del dato iscritto a bilancio rispetto alle emergenze documentali bensì la correttezza dei valori presenti nei contratti e pedissequamente riportati nei bilanci.
Sul punto viene specificato che tale gestione appare “senza dubbio contraria ai principi di buona e corretta amministrazione come tutelati dai citati commi 1 e 2 dell’art. 8 CGS (illeciti amministrativi, ndr). Depongono in tal senso sia i reiterati scambi di diritti tra le medesime società, sia gli elevati importi di tali transazioni per valori di gran lunga superiori a quelli erogati per la cessione di atleti con curriculum ben più ricco, sia il mancato inserimento ed utilizzo nelle proprie squadre degli atleti oggetto di tali così onerosi acquisti. In altri termini, la circostanza che si sia reiteratamente proceduto ad acquistare e vendere diritti non solo per importi particolarmente elevati (soprattutto se paragonati a quelli di atleti di ben diversa caratura) ma altresì per atleti di cui la squadra non si è ma avvalsa, fa ritenere provata senza dubbio una gestione dei bilanci societari non prudente né corretta da parte dei vertici delle società deferite”.
In altri termini il reiterato utilizzo di operazioni incrociate che producono plusvalenze ma poca o nessuna movimentazione di cassa, nel caso di specie è stato considerato illecito amministrativo “semplice” e come tale sanzionabile con 3 punti di penalizzazione in classifica anziché 15. Infatti, per quanto attiene alla congruità della sanzione inflitta, occorre ricordare che la violazione dei suddetti commi non si è sostanziata in una mancata produzione, alterazione o falsificazione di atti, bensì in una elusione dei ricordati principi contabili di prudenza e correttezza; conseguentemente, afferma la Corte d’Appello, si deve ritenere che la valutazione effettuata dal giudice di primo grado, anche alla luce di quanto disposto dall’art. 16 CGS, appaia equa anche se inferiore ai minimi edittali. Tale interpretazione è stata confermata anche dal Collegio di Garanzia, ultimo grado di giustizia sportiva.
Al contrario, l’assunto più grave previsto dal quarto comma dell’art. 8 (oggi art. 31, comma 2 CGS), quindi la “falsificazione dei propri documenti contabili o amministrativi” ovvero “qualsiasi altra attività illecita o elusiva” con cui si tenti di ottenere l’iscrizione a una competizione cui non si sarebbe potuti essere ammessi sulla base delle disposizioni vigenti, non è risultato dimostrato giacché non si è potuto addivenire ad un esatto computo delle plusvalenze conseguenti alla contestata, imprudente e scorretta gestione delle transazioni e, pertanto, non è stato possibile giungere ad un’esatta valutazione dei valori di bilancio conseguenti ad una diversa determinazione del prezzo di cessione dei diritti e del relativo valore iscritto a bilancio.
Ergo, in assenza nel vigente ordinamento sportivo italiano di una disposizione che fissi in maniera chiara i parametri di riferimento da adottare per la valutazione della congruità del valore dei diritti degli atleti, la determinazione di tali valori non può che essere affidata alla libera contrattazione delle parti. E laddove la società iscriva correttamente nei propri bilanci i corrispettivi dichiarati nei contratti, non può essere accusata – a livello sportivo – di aver falsificato i documenti contabili o aver posto in essere altra attività elusiva.
Per questo motivo allo stato attuale una società che utilizzi e perfino abusi delle c.d. “plusvalenze”, qualora non abbia falsificato i propri documenti contabili o eluso altresì le normative federali, non può essere sanzionata con l’esclusione dal campionato o con una valanga di punti di penalizzazione. Laddove venisse accertato il sistematico abuso di “maquillage” contabile, la società in questione, salva l’applicazione delle più gravi sanzioni previste dalle norme in materia di licenze UEFA o da altre norme speciali, nonché delle più gravi sanzioni che possono essere irrogate per gli altri fatti previsti dall’articolo 31 CGS, potrebbe rischiare soltanto un’ammenda con diffida e i dirigenti ritenuti colpevoli possono subire la sanzione della inibizione.
Quei tifosi che, giustamente, si indignano ed invocano pene esemplari dovrebbero sperare che la FIGC riformi il Codice di Giustizia Sportiva, inasprendo le pene anche per chi imprudentemente abusa delle plusvalenze regolarmente iscritte a bilancio; e secondariamente si dovrebbe procedere a scorporare tale voci di ricavo dai rendiconti finanziari necessari per potersi iscrivere ai campionati. A quel punto il fenomeno verrebbe ridimensionato. Ma è necessario che chi governa il calcio italiano voglia realmente risolvere il problema.
Ai posteri l’ardua sentenza.
Avv. Felice Raimondo
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