Nuovo grattacapo per l’UEFA: il 9 marzo 2023 l’avvocato generale della CGUE si dovrà esprimere sul contenzioso attivato dalla Royal Anversa (Case C-680/21) avente ad oggetto le limitazioni che la UEFA impone a tutti i club che partecipano alle sue competizioni e riguardanti la composizione delle liste. Ecco un breve riassunto per chi non conoscesse l’argomento.
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Il 2 febbraio 2005, il Comitato esecutivo dell’UEFA ha deciso di adottare una norma che impone ai club partecipanti alle competizioni dell’UEFA un limite massimo di 25 giocatori tesserati, tra i quali deve figurare un numero minimo di giocatori del vivaio.
Fin dalla stagione 2008/2009, data di entrata in vigore a pieno regime della nuova norma, il regolamento dell’UEFA prevede che i club iscritti alle sue competizioni possano tesserare un massimo 25 giocatori, di cui almeno 8 devono essere giocatori del vivaio (4 cresciuti nel club, 4 nella Lega di appartenenza). I «giocatori del vivaio» sono definiti dall’UEFA come giocatori che, indipendentemente dalla cittadinanza, tra i 15 e i 21 anni per almeno tre anni sono stati formati dal loro club o da un altro club della medesima associazione nazionale.
Questa regola, secondo l’Anversa, club belga che ha interpellato il CBAS (Corte arbitrale belga per lo sport) che a sua volta ha effettuato il rinvio pregiudiziale alla CGUE, è potenzialmente lesiva dell’art. 45 del TFUE che prevede, in particolare, quanto segue:
«1. La libera circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione è assicurata.
2. Essa implica l’abolizione di qualsiasi discriminazione, fondata sulla nazionalità, tra i lavoratori degli Stati membri, per quanto riguarda l’impiego, la retribuzione e le altre condizioni di lavoro. (…)»
Nonché potenzialmente lesiva dell’art. 101 del TFUE che stabilisce quanto segue:
«1. Sono incompatibili con il mercato interno e vietati tutti gli accordi tra imprese, tutte le decisioni di associazioni di imprese e tutte le pratiche concordate che possano pregiudicare il commercio tra Stati membri e che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza all’interno del mercato interno (…).
2. Gli accordi o decisioni, vietati in virtù del presente articolo, sono nulli di pieno diritto»
La domanda è questa: le contestazioni troveranno terreno fertile davanti alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea?
I PARERI POSITIVI DEL PARLAMENTO E DELLA COMMISSIONE UE
Sul punto bisogna chiarire che la UEFA in data 8 maggio 2008 ha ricevuto una prima approvazione dal Parlamento Europeo che (Link) ha riconosciuto con la Commissione che l’investimento nei giovani sportivi di talento è indispensabile per lo sviluppo sostenibile dello sport e ha ritenuto a) che vi sia un’autentica sfida per il movimento sportivo finalizzata a garantire la formazione locale dei giocatori; b) che la regola UEFA dei giocatori provenienti dal vivaio possa servire da esempio ad altre federazioni, leghe e club. In tale contesto, il Parlamento si è richiamato al compito conferito all’Unione europea dal trattato di Lisbona di tutelare l’integrità fisica e psichica soprattutto degli sportivi più giovani e, quindi, ha chiesto alla Commissione di riconoscere la legalità di misure atte a favorire la promozione dei giocatori provenienti da programmi di formazione, come per esempio, un numero minimo di giocatori formati localmente, a prescindere dalla loro nazionalità, nelle squadre professionistiche.
Quindi, il Parlamento Europeo, in pari data, invitò gli Stati membri e le organizzazioni sportive “a non introdurre nuove norme che creino discriminazioni dirette fondate sulla nazionalità (come la norma 6+5 giocatori proposta dalla FIFA che si contrappone al sistema più proporzionale e meno discriminatorio dei giocatori cresciuti nel vivaio)”, appoggiando invece “il dialogo politico con gli Stati membri quale mezzo per combattere la discriminazione nello sport attraverso raccomandazioni, il dialogo strutturato con le parti sportive interessate e, qualora opportuno, attraverso procedure di infrazione”.
Sulla base di queste considerazioni, successivamente in data 28 maggio 2008 (Link) la Commissione Europea, con un comunicato stampa, sanciva la piena compatibilità della regola UEFA sul “home-grown” con il principio della libera circolazione dei giocatori/lavoratori.
La Commissione europea ha pubblicato uno studio indipendente sulla regola dei “giocatori cresciuti in casa” adottata dalla UEFA. Questa regola richiede che i club partecipanti alla Champions League e alla Coppa UEFA abbiano un numero minimo di “giocatori cresciuti in casa” nelle loro squadre. Rispetto alla regola del “6+5” proposta dalla FIFA, che è stata ritenuta incompatibile con l’UE perché fondata sulla cittadinanza dei giocatori, la Commissione ha ritenuto che l’UEFA abbia invece optato per un approccio che sembra rispettare il principio della libera circolazione dei lavoratori, promuovendo nel contempo la formazione di giovani giocatori europei. La Commissione ha rilevato inoltre che queste misure sono destinate a sostenere la promozione e la tutela della formazione di qualità per giovani calciatori nell’UE. Questo studio era già stato annunciato nel Libro bianco Sport a luglio 2007.
A queste considerazioni si aggiunsero quelle di Ján Figel, all’epoca commissario europeo responsabile per l’istruzione, la formazione, cultura e gioventù, il quale dichiarò: «Mi sembrano necessarie misure che richiedono ai top club europei di preservare strutture di formazione di qualità. Le regole UEFA evitano così il rischio che le società calcistiche professionistiche abbandonino le strutture di formazione».
Nello specifico, all’interno del piano d’azione Pierre de Coubertin, una parte del Libro bianco sullo sport, si afferma che «Norme che impongono alle squadre di includere una determinata quota dei “giocatori cresciuti in casa” potrebbero essere accettate come compatibili con le disposizioni del trattato relative alla libera circolazione delle persone qualora non diano luogo ad alcuna discriminazione diretta basata sulla nazionalità e, se possibile, indiretta. Gli effetti discriminatori che ne derivano possono essere giustificati come proporzionati a un obiettivo legittimo perseguito, quale il miglioramento e la protezione della formazione e dello sviluppo dei giovani giocatori di talento”.
Secondo la Commissione i “giocatori cresciuti in casa” sono definiti dalla UEFA come giocatori che, indipendentemente dalla loro nazionalità o età, sono stati allenati dal loro club o da un altro club della federazione nazionale per almeno tre anni tra il 15 e 21 anni. La regola UEFA non contiene alcun requisito di nazionalità. Esso si applica allo stesso modo anche a tutti i giocatori e a tutti i club che partecipano a competizioni organizzate dalla UEFA.
A questo punto, però, la Commissione ha messo in guardia la UEFA: “sebbene al momento sia difficile affermare con certezza che la regola dei “giocatori di provenienza” porti a una discriminazione indiretta sulla base della nazionalità, il potenziale rischio di ciò non può essere escluso, in quanto i giovani giocatori che frequentano un centro di formazione presso un club in uno Stato membro tendono a provenire da quello Stato membro piuttosto che da altri paesi dell’UE”.
Ciò posto, gli obiettivi alla base della regola “home-grown”, vale a dire promuovere la formazione per i giovani giocatori e consolidare l’equilibrio delle competizioni, secondo la Commissione sembrano essere obiettivi legittimi di interesse generale, in quanto inerenti all’attività sportiva.
Ma con queste premesse com’è stato possibile un rinvio dinanzi alla CGUE?
IL SECONDO STUDIO COMMISSIONATO DAL GARANTE UE: ECCO LE FORTI CRITICHE ALL’HOME GROWN.
La risposta è presto detta: nel 2013 la Commissione Europea ha incaricato l’Università di Liverpool di preparare un nuovo studio (Link) sulla regola “home-grown”. E dato che questo nuovo studio ha sollevato diverse perplessità, il CBAS belga ha rinviato il caso alla CGUE per una pronuncia definitiva sull’argomento.
Le forti critiche alla Regola contestata emergono soprattutto da pagina 84 in poi e portano l’Università di Liverpool a richiamare il monito (sopra riportato) della Commissione UE per giungere a questa considerazione:
“Ciò potrebbe costituire una forma di discriminazione nascosta perché, anche se la norma è apparentemente neutra in termini di nazionalità, i lavoratori nazionali sono potenzialmente avvantaggiati rispetto ai lavoratori migranti. È logico che i cittadini nazionali abbiano maggiori probabilità di soddisfare i criteri di “formazione locale” rispetto ai lavoratori stranieri semplicemente come conseguenza della loro posizione geografica. Come già evidenziato in precedenza, la prova della discriminazione indiretta non richiede che il ricorrente dimostri che la misura nazionale riguardava in pratica una quota maggiore di lavoratori stranieri, ma semplicemente che la misura era intrinsecamente idonea a colpire i lavoratori migranti più dei cittadini nazionali e che non era un rischio che ponesse i lavoratori migranti in una situazione di particolare svantaggio. Ciononostante, i dati presentati nel capitolo 5 dimostrano che un numero considerevolmente maggiore di cittadini nazionali soddisfa i criteri di produzione domestica rispetto agli stranieri, confermando così l’effetto indirettamente discriminatorio. La nostra conclusione è che la Regola UEFA non costituisce una discriminazione diretta, ma una discriminazione indiretta nei confronti dei lavoratori dell’UE sulla base della loro nazionalità.
Di conseguenza, deve essere giustificato, adeguato e necessario per essere considerato difendibile ai sensi delle leggi dell’UE sulla libertà di movimento. La valutazione legale procederà ora a prendere in considerazione questi test”.
A questo punto l’Università di Liverpool afferma che stabilire che la regola del giocatore cresciuto in loco costituisce una discriminazione indiretta basata sulla nazionalità e una restrizione alla libera circolazione di un lavoratore non comporta, di per sé, una constatazione di incompatibilità con l’articolo 45 TFUE. Le restrizioni indirettamente discriminatorie, infatti, sono compatibili con la libertà di circolazione se possono essere giustificate da imperativi di interesse generale.
Quindi, dopo aver menzionato i pareri favorevoli del Parlamento Europeo e della Commissione, l’Università ha ritenuto che, anche sulla base delle decisioni della Corte europea nelle cause Bosman, Lehtonen e Bernard, e in applicazione del test di Gebhard, la Regola UEFA possa essere potenzialmente giustificata da un requisito imperativo di interesse generale, vale a dire:
a) La necessità di migliorare la formazione, l’istruzione e lo sviluppo dei giocatori, e
b) La necessità di tutelare l’equilibrio competitivo.
Oltre al processo di giustificazione oggettiva dell’UE descritta sopra, il gruppo di studiosi ricorda che le fasi tre e quattro del test di Gebhard richiedono che la misura rimanga proporzionata. Tale principio generale del diritto dell’Unione richiede che il provvedimento sia idoneo a garantire il conseguimento degli obiettivi perseguiti e non ecceda quanto necessario per il suo conseguimento. Inoltre, secondo lo studio dell’Università, è chiaro che la Commissione non può fornire garanzie giuridiche in merito alla compatibilità delle misure con il trattato. La valutazione preliminare della Commissione sulla regola del giocatore cresciuto in casa (quella del 2008) e qualsiasi posizione assunta a seguito dell’esame del nuovo studio, non vincola in alcun modo la Corte di Giustizia. In altri termini la CGUE, in teoria, potrebbe anche discostarsi dal parere della Commissione Europea.
L’Università, inoltre, afferma che, sebbene dall’introduzione della regola “home grown” il numero di giocatori formati localmente sia aumentato, le motivazioni non sarebbero direttamente collegabili all’applicazione della regola ma ad eventi esterni quali:
– Regole di ammissibilità dei giocatori nazionali che sono spesso più restrittive.
– Requisiti di licenza nazionali o europei per partecipare alle competizioni.
– Programmi nazionali di sviluppo dei giocatori incentivati.
– La situazione finanziaria di un club (sia cronica che acuta).
– Pressioni economiche locali o globali.
– La “tradizione” di un club.
Secondo lo studio di Liverpool “È possibile che una misura normativa, come la regola del giocatore cresciuto in casa, possa offrire un effetto di incentivazione più permanente per investire nei giovani e fare meno affidamento sul mercato per riempire le squadre dei club, il che significa che i potenziali benefici della Regola possono essere presentati a lungo termine. Tuttavia non abbiamo trovato alcuna prova concreta del potenziale per una traiettoria futura verso l’alto (o verso il basso) in termini di investimento o qualità dello sviluppo dei giovani come risultato del fatto che la Regola rimane in vigore nella sua forma attuale”.
Quindi, in conclusione “l’effetto della Regola è stato minimo, discordante e non così significativo come altri fattori normativi ed economici concorrenti. Pertanto, in termini di valutazione giuridica rispetto a tale obiettivo, la Regola è neutra o, nel migliore dei casi, solo marginalmente positiva”.
Proseguendo nel rapporto, l’Università afferma che la regola deve superare un altro criterio: quello della necessità. In tal caso il criterio richiede che l’atto impugnato in esame non ecceda quanto necessario per garantire gli obiettivi legittimi dichiarati. Come sopra illustrato, il criterio è stato interpretato anche nel senso che, ove non esistano alternative meno restrittive, il provvedimento impugnato non deve avere un effetto eccessivo o sproporzionato: il pregiudizio arrecato dal provvedimento deve essere proporzionato al beneficio delle finalità perseguite. Ciò significa che un tribunale potrebbe considerare una misura idonea e necessaria, ma potrebbe comunque fallire il controllo di proporzionalità perché l’onere posto a carico del denunciante dalla misura è sproporzionato rispetto ai benefici garantiti.
Nel caso specifico, sebbene i vantaggi conseguiti dalla Regola siano molto modesti, gli effetti restrittivi sui giocatori non sono così grandi da mettere in discussione la proporzionalità della Regola.
Successivamente lo studio si domanda: esistono soluzioni meno restrittive in grado di raggiungere gli stessi scopi? Sicuramente non ridurre il numero di giocatori da inserire come “home grown”: “A questo proposito, i nostri dati suggeriscono che una riduzione del numero di giocatori cresciuti in casa ridurrebbe il già limitato impatto positivo sull’equilibrio competitivo. Ridurre il “morso” della norma ridurrà quindi la sua possibilità di essere considerata idonea ai sensi delle leggi sulla libertà di movimento perché raggiungerebbe i suoi obiettivi con un effetto minore. Pertanto, non è consigliabile ridurre la quota di giocatori cresciuti in casa”.
Quindi il gruppo di giuristi si chiede se l’effetto indirettamente discriminatorio si sarebbe potuto ridurre limitando il concetto di “home grown” solo ai giocatori formati dal club e non anche a quelli formati nella Lega. Ma la risposta è stata negativa in base a tre considerazioni:
“In primo luogo, la nostra analisi dei dati sull’equilibrio competitivo suggerisce che l’utilizzo di giocatori formati dalle federazioni svolge il ruolo principale nel ridurre il successo delle squadre di livello più alto nelle fasi a gironi della Champions League. Sembra farlo limitando le scelte di reclutamento di queste squadre. In secondo luogo, alcuni club con redditi inferiori hanno suggerito che la parte della regola relativa alla formazione dell’associazione consentisse loro di trarre entrate dai club più grandi appartenenti alla loro associazione attraverso quote di trasferimento e indennità di formazione. Ciò è servito per incentivare lo sviluppo dei giovani. In terzo luogo, l’eliminazione della regola dei giocatori formati dalle associazioni potrebbe incoraggiare i club più grandi a reclutare giocatori dalle competizioni in età più precoce. Per questi motivi non raccomandiamo di rimuovere dalla Regola l’aspetto del giocatore formato dall’associazione”.
Secondo lo studio, invece, un metodo efficace potrebbe essere quello di aumentare il numero dei giocatori “home grown” rispetto agli attuali 4+4, ma solo come extrema ratio:
“Come discusso in precedenza, non sembra che l’attuale regola 4+4 abbia comportato problemi significativi per quanto riguarda la circolazione di un lavoratore nel mercato interno. Un aumento della quota dall’attuale 4+4 a 5+5 interesserebbe solo il 40% della dimensione della rosa e non richiederebbe comunque a un club di schierare un giocatore cresciuto in casa nell’XI titolare o di sostituire i giocatori in campo con sostituti cresciuti in casa per tutto il tempo lo svolgimento della partita. Dato che i nostri dati confermano l’idea che un modesto aumento della quota potrebbe comportare un analogo aumento dell’equilibrio competitivo, si potrebbe sostenere che una regola leggermente rafforzata soddisfi il controllo di proporzionalità per questi motivi. Qualsiasi aumento di questo tipo dovrebbe essere oggetto di uno studio futuro che esamini l’impatto del cambiamento. Tuttavia, l’adozione di questa azione dovrebbe essere presa in considerazione solo se non esistessero misure alternative meno restrittive. È opinione del gruppo di ricerca che non dovrebbe aver luogo alcuna espansione della quota fino a quando non saranno state scontate misure alternative meno restrittive”.
Avviandosi verso la conclusione, lo studio dell’Università di Liverpool afferma che esistono numerose misure regolamentari sportive alternative che hanno il potenziale per garantire gli obiettivi di promuovere l’equilibrio competitivo e la formazione e lo sviluppo dei giovani all’interno del settore del calcio professionistico europeo. In particolare, secondo lo studio, nel discutere le misure normative alternative si può fare un’osservazione generale, cioè gli interventi normativi nel settore del calcio professionistico possono assumere due forme: a) quelli che interessano il mercato dei prodotti (misure che riguardano i club) e quelli che riguardano il mercato del lavoro (misure che riguardano i giocatori).
È ovvio che gli interventi nel mercato del lavoro hanno maggiori probabilità di incidere sui diritti dei lavoratori (come i diritti alla libera circolazione) mentre gli interventi sul mercato dei prodotti hanno maggiori probabilità di incidere sui diritti dei club (quindi potenzialmente coinvolgendo il diritto della concorrenza dell’UE). È quindi meno probabile che gli interventi sul mercato dei prodotti violino i principi dell’UE sulla libera circolazione dei lavoratori.
Gli interventi sul mercato dei prodotti includono: programmi di licenza per club che richiedono ai club di fornire programmi di sviluppo giovanile di alta qualità; misure di controllo dei costi come il fair play finanziario e i tetti salariali; incentivi finanziari per sviluppare giocatori cresciuti in casa; schemi di compartecipazione alle entrate; liberalizzazione del mercato dei prodotti, consentendo così ai club di beneficiare dei diritti di libera circolazione di cui godono i giocatori.
Gli interventi sul mercato del lavoro includono: richiedere a un giocatore di firmare il suo primo contratto professionale con il club che lo ha formato; l’introduzione di contratti internazionali per i giocatori di età inferiore ai 18 anni che consentirebbero ai club di formazione un mezzo uniforme per assumere i propri giocatori delle giovanili in tutto il mondo; l’allungamento della durata massima dei contratti per i calciatori di età inferiore ai 18 anni; riformare il sistema di indennità di formazione per fornire maggiori incentivi ai club per lo sviluppo dei giovani; limitare il trasferimento di minori; imponendo limiti di dimensione della squadra.
Malgrado ciò, la preferenza degli organi di governo a regolamentare il mercato del lavoro appare storicamente radicata. Eppure, secondo l’Università di Liverpool, “ci sono forti ragioni legali per cui le restrizioni del mercato del lavoro dovrebbero essere considerate l’ultima risorsa e gli autori di questo studio raccomandano che le istituzioni dell’UE adottino questo approccio come loro principio fondante quando valutano misure che sarebbero in conflitto con le libertà degli atleti. A questo proposito, il gruppo di ricerca non considererebbe auspicabile che gli organi di governo dello sport, di fronte a obiezioni alle loro attuali regole di ammissibilità dei giocatori, riconfigurino semplicemente restrizioni direttamente discriminatorie in modo da ottenere l’apparenza di misure indirettamente discriminatorie apparentemente più benigne senza aver prima sistematicamente stabilito perché le alternative non discriminatorie, in particolare quelle situate al di fuori del mercato del lavoro, non sono adatte. Di conseguenza, prima che la norma possa essere definita categoricamente compatibile con il diritto dell’UE in materia di libera circolazione, dovrebbero essere esaminate alternative meno restrittive, in particolare quelle che non comportano effetti discriminatori e non si trovano all’interno del mercato del lavoro”.
Nelle sue conclusioni, il gruppo di ricerca afferma che non si può stabilire categoricamente che gli effetti restrittivi della Regola “Home Grown” sulla libera circolazione dei lavoratori siano proporzionati ai benefici molto limitati della Regola in termini di equilibrio competitivo e di formazione e sviluppo dei giovani calciatori: “È opinione del gruppo di ricerca che i benefici molto modesti della Regola possano essere raggiunti in modo più sostanziale mediante l’adozione di mezzi alternativi, meno restrittivi, in particolare quelli che non comportano effetti discriminatori. La UEFA, in collaborazione con le principali parti interessate del calcio, detiene l’esperienza e le competenze necessarie per esplorare queste alternative e dovrebbe disporre di un tempo ragionevole per farlo (un periodo di tre anni). Questo periodo dovrebbe anche consentire alla UEFA di valutare se le misure normative esistenti (come le licenze per club e il fair play finanziario) stiano apportando tali miglioramenti all’equilibrio competitivo e alla qualità dello sviluppo giovanile da rendere superflue le restrizioni discriminatorie del mercato del lavoro. In particolare, le parti interessate sono incoraggiate ad avvalersi del comitato di dialogo sociale istituito per il calcio professionistico nel 2008.
“Se la UEFA può dimostrare che misure alternative meno restrittive non sono idonee a raggiungere gli obiettivi dichiarati della Regola e che le misure esistenti non hanno apportato i necessari miglioramenti, allora la Regola deve essere considerata compatibile con il diritto dell’UE, complementare alle misure esistenti (come licenze per club) e si potrebbe contemplare un aumento incrementale della quota. Questa valutazione è condizionata dal mantenimento dei benefici esistenti della Regola nei prossimi tre anni. Se alternative meno restrittive sono in grado di ottenere miglioramenti più sostanziali nell’equilibrio competitivo e nella qualità dello sviluppo dei giovani, la proporzionalità della Regola non sarà stata stabilita e la Regola dovrebbe essere rimossa dai Regolamenti UEFA. Si raccomanda di condurre un ulteriore studio tra tre anni al fine di valutare: (1) se i miglioramenti dell’equilibrio competitivo individuati siano stati mantenuti, migliorati ulteriormente o siano diminuiti, (2) se un collegamento più stretto tra la Regola e i miglioramenti nella lo sviluppo dei giovani può essere identificato e (3) se alternative meno restrittive possono apportare miglioramenti più sostanziali all’equilibrio competitivo e alla qualità dello sviluppo dei giovani”.
Il gruppo di studiosi, quindi, ha invitato la Commissione a consultare le principali parti interessate per stabilire se misure alternative, che non comportino effetti discriminatori nemmeno indiretti, possano apportare benefici più sostanziali al calcio europeo.
Dal 2013 ad oggi sono passati 9 anni e lo scrivente non è a conoscenza di alcuno studio successivo paragonabile a quello dell’Università di Liverpool. Anzi, nel 2014 (Link) la Commissione Europea è tornata ad esprimersi sull’argomento, ritenendo che le quote stabilite dalla Federazione spagnola di pallacanestro (FEB) e dall’Associazione spagnola dei club di pallacanestro (ACB) per alcune competizioni nazionali, che hanno portato a riservare a giocatori formati localmente tra il 40% e l’88% dei posti di lavoro disponibili nelle squadre di basket, non erano compatibili con le norme del trattato sulla libera circolazione. Nella sua decisione, la Commissione ha fatto nuovamente riferimento alla regola UEFA Home Grown Player (32% dei posti in ciascuna squadra) come esempio di una quota che sembrava proporzionata al perseguimento dei legittimi obiettivi sportivi relativi alla promozione e formazione di giovani calciatori, e volti a incoraggiare una concorrenza leale tra club.
Alla luce di quanto suesposto, la politica europea (e la Commissione Europea è organo politico dell’UE) sembra granitica nel difendere la regola dell’home grown, così come elaborata dall’UEFA. Ciò nonostante, come rilevato dallo studio dell’Università di Liverpool, diverse perplessità giuridiche permangono e, quindi, nel 2023 la CGUE dovrà esprimersi definitivamente sulla compatibilità di questa regola con il diritto comunitario. L’opinione dello scrivente è che le motivazioni a contrario non siano così forti da cancellare l’home grown, soprattutto se la UEFA dimostrerà di non aver individuato alternative meno restrittive.
Avv. Felice Raimondo
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