La sentenza Bosman fu emessa nel 1995 dalla Corte di Giustizia Europea, tuttavia la sua forza dirompente la stiamo constatando solo negli ultimi tempi. Con quel provvedimento la CGUE aprì la strada a quelli che oggi definiamo “parametri zero”, ossia giocatori in scadenza di contratto che, a partire dagli ultimi sei mesi di vincolo, sono liberi di firmare con qualsiasi squadra.
Così facendo – al termine dell’accordo negoziale – il calciatore diventa proprietario del “cartellino”, cioè del diritto di trasferirsi dove vuole senza che il suo ultimo datore di lavoro riceva alcunché. Sulla base di questo concetto, il valore immateriale di un giocatore rappresenta un costo altamente rischioso per ogni società che dovrà sopportarne la spesa a fronte dell’incertezza futura di averne un ritorno economico.
Se la sentenza Bosman ha affermato un diritto sacrosanto nel libero mercato dei lavoratori dell’Unione Europea, quello stesso diritto nel corso degli anni è diventato un chiaro strumento di abuso affinché determinate persone lucrassero grazie alla libera circolazione dei lavoratori/giocatori. La prassi negoziale con cui un impiegato o un grande dirigente d’azienda si trasferiscono da una società all’altra non è certamente equiparabile alla prassi negoziale con cui un calciatore si trasferisce da un club all’altro. Nel primo caso, infatti, non esiste un mercato dei cartellini e quindi le società mettono sotto contratto impiegati e dirigenti sopportando solo il costo dello stipendio. Nel secondo caso, al contrario, un club di calcio è tenuto a sopportare non solo il costo del salario ma anche quello del “cartellino”, ossia il valore immateriale inerente alle prestazioni sportive dell’atleta.
Per questo motivo il rischio d’impresa per le società calcistiche aumenta vertiginosamente, giacché il valore immateriale dei cartellini – che rappresenta a tutti gli effetti un costo iscritto nel conto economico alla voce “ammortamenti” – negli ultimi tempi sta diventando esclusivamente una voce di spesa e non di guadagno. Almeno per i club. Già, perché nel momento in cui un contratto giunge a scadenza – proprio in virtù di quanto sancito dalla sentenza Bosman – un calciatore è libero di vendersi al miglior offerente. Quindi il guadagno potenziale si sposta dalla società all’atleta e, spesso, al suo procuratore. Ormai i c.d. premi alla firma sono diventati la prassi, così come le altissime commissioni agli agenti sportivi che rappresentano un costo immateriale equiparabile ai cartellini. Tant’è vero che le società (ad es. il Milan) iscrivono questi costi in ammortamento.
La domanda sorge spontanea: vale la pena spendere tanti soldi per i cartellini se poi i giocatori al termine del contratto sono liberi di procurarsi un profitto, sottraendolo al proprio club? In che modo è possibile arginare questo abuso sistematico che ormai danneggia molte società?
LA LEGGE N. 91 DEL 23 MARZO 1981: LA DURATA DEI CONTRATTI
Per tamponare l’andazzo e sottrarre potere ai procuratori, una prima soluzione può essere l’intervento legislativo. Quindi la modifica dell’art. 5 della Legge 23 marzo 1981, n. 91, estendendo così la durata contrattuale massima di 5 anni (in Spagna già sono 6). Una Federazione illuminata avrebbe già attivato i giusti canali politici per un emendamento di quel tipo. Così facendo la tutela della squadra proprietaria del “cartellino” si estenderebbe in maniera vistosa e sarebbe più flessibile, dato che il club potrebbe offrire una durata contrattuale più lunga, elaborandola in modo da invogliare il giocatore a sottoscriverla. Ad esempio, con uno stipendio base che aumenta progressivamente negli anni in base ai risultati personali e di squadra. Ma non solo: un contratto più lungo alleggerirebbe anche il peso degli ammortamenti, e quindi il costo per ogni stagione della relativa voce nel conto economico.
L’ESTENSIONE DEI CONTRATTI CON LA STIPULA DI ACCORDI AD HOC
Nel caso in cui il Governo non faccia nulla, le società devono trovare un modo per ottenere i medesimi risultati di cui sopra. Quindi per superare il limite delle cinque stagioni, una soluzione può essere quella di stipulare – al momento della prima firma – un secondo accordo separato, differendone l’efficacia e subordinandola ad un evento futuro ed incerto. Le parti nel secondo accordo dovranno inserire una condizione sospensiva, al cui verificarsi scatterà l’evento prestabilito: in tal caso il prolungamento di contratto di uno o due anni. La condizione può essere il rifiuto di un rinnovo contrattuale (negli ultimi sei mesi) che non sia dettato da un’offerta concreta ricevuta sul tavolo (rifiuto giustificato). In quel caso scatterebbe l’effetto posto a tutela del club, ossia il rinnovo di 1 o 2 anni alle medesime condizioni economiche. Ma non solo: si potrebbe pattuire che in caso di rifiuto giustificato da un’offerta concreta, il giocatore accetterebbe di restare nel suo attuale club se quest’ultimo pareggiasse le medesime condizioni contrattuali ed economiche proposte dal terzo club offerente. Quindi una vera e propria prelazione a mantenere il diritto alle prestazioni sportive.
INDENNIZZI ALLE SOCIETA’ E ASSICURAZIONI
Una soluzione tampone potrebbe essere quella di individuare degli indennizzi nei confronti dei club che perdono giocatori a parametro zero. Il valore di questi indennizzi, di cui dovrebbe farsene carico la FIGC o la UEFA/FIFA (a cui i soldi non mancano), anche dietro stipula di accordi assicurativi, dovrebbe essere commisurato all’unico parametro oggettivo individuabile: lo stipendio corrisposto al giocatore andato via a parametro zero. Quindi maggiore sarà lo stipendio versato per un certo numeri di anni, maggiore dovrà essere l’indennizzo. Quest’ultimo, inoltre, potrebbe scattare soltanto nel momento in cui il giocatore rifiutasse un prolungamento contrattuale. Se invece il club non proponesse alcun accordo, cioè non manifestasse l’intenzione di conservare il valore immateriale del cartellino (perché magari vorrebbe privarsi dell’atleta), logicamente non potrebbe vantare alcunché. Una soluzione simile di tipo assicurativo potrebbe essere stipulata anche direttamente dalle società, ma trovo ingiusto che queste ultime debbano sopportare ulteriori costi a causa di lacune normative sportive (oltre che legislative).
LIMITARE LE COMMISSIONI AGLI AGENTI E I MANDATI MULTIPLI
Infine, last but not least, dato che ormai gli agenti sportivi sono delle aziende che fatturano milioni di euro, risorse che vengono sottratte al sistema calcio, sarebbe opportuno che le istituzioni sportive (FIFA) limitassero le commissioni e la possibilità di agire nell’interesse di più parti all’interno di un medesimo affare.
Se infatti si fornisce il diritto di rappresentare un giocatore e anche chi vende o chi compra il “cartellino”, inevitabilmente il procuratore avrà un interesse personale affinché il giocatore si trasferisca da un club all’altro. Una fattispecie del tutto identica alle Third Party Ownership (TPO) che la FIFA ha messo al bando buttandole fuori dalla porta, ma che grazie agli agenti sportivi sono rientrate dalla finestra.
Alla luce di tutto ciò, appare inevitabile un intervento da parte delle istituzioni statali o sportive. Soprattutto per tamponare la crisi economica in cui versano i club, affossati dalla pandemia globale. Giocatori e agenti sportivi non soffrono la crisi e fanno spallucce di fronte ai problemi dei club: semplicemente salutano e firmano col miglior offerente, creando un danno patrimoniale di cui oggi nessuno sembra preoccuparsi. Sarebbe opportuno, quindi, che chi gestisce il calcio trovi dei rimedi che tutelino maggiormente quei club che sono alla mercé dei giocatori. Minacciare un anno di panchina (scelta tecnica incontestabile) ad oggi è l’unico flebile rimedio che le società possono vantare nei confronti dei tesserati. Un’arma a doppio taglio che se va bene induce all’uscita, ma se va male costringe il club a pagare un giocatore senza potersene servire. Una doppia beffa che evidenzia ancor più quanto sia sbilanciato il rapporto contrattuale tra giocatori e società.
Avv. Felice Raimondo