La questione riguardante i buoni fruttiferi postali serie Q/P, che da qualche anno intasa le aule giudiziarie, è stata recentemente affrontata dalla trasmissione “Mi Manda Rai 3” (Link dal 22° minuto in poi, in cui l’ente postale ha rifiutato il confronto non inviando nessun dirigente davanti alle telecamere).
La problematica verte sui maggiori interessi riguardanti gli ultimi dieci anni. Poste Italiane, infatti, verso la fine degli anni 80 e gli inizi degli anni 90, ha messo in circolo dei BFP di nuova emissione, serie Q/P, utilizzando però vecchi moduli della serie P. Ciò era consentito da un Decreto Ministeriale che, tuttavia, imponeva a Poste Italiane di aggiornare i vecchi moduli inserendo i saggi secondo le nuove prescrizioni. Trattasi di BFP trentennali, ergo la modifica avrebbe dovuto riguardare tutto l’arco temporale. Poste Italiane provvedeva con un timbro sul fronte a modificare la serie, da P a Q/P, mentre con un timbro sul retro apponeva sulla vecchia tabellina (che riportava l’originale sviluppo fino al 30° anno) i nuovi saggi fino al 20° anno, non modificando nulla per gli ultimi 10 anni, ultimo scaglione grazie al quale venivano prodotti i maggiori interessi (in basso alla tabellina è possibile leggere in piccolo “più lire tot per ogni successivo bimestre maturato fino al 31 dicembre del 30° anno solare successivo a quello di emissione”).
Quindi, dopo 30 anni, il risparmiatore che si recava presso l’ufficio postale era convinto di incassare una cifra ben più alta perché i saggi sul retro del buono erano variati solo fino al 20° anno.
Fino al febbraio 2022 la maggioranza dei Tribunali italiani, chiamati a decidere su questa problematica, dava sistematicamente ragione ai risparmiatori, affermando che, in considerazione del fatto che il Decreto Ministeriale che peggiorava i tassi di interesse era stato pubblicato prima dell’emissione dei BFP, i risparmiatori non potevano sapere che, già all’atto dell’emissione del titolo, le condizioni stampigliate sui loro buoni erano diverse da quelle prospettate e vendute da Poste Italiane. In questo caso, dicevano i Giudici, va tutelato il legittimo affidamento che si è prodotto in capo al risparmiatore che non poteva sapere che i buoni venduti avevano condizioni differenti sulla base di un precedente Decreto Ministeriale. Ergo, i risparmiatori potevano solo sapere che in futuro le condizioni sarebbero potute cambiare (in ossequio ai principi della Cassazione a Sezioni Unite del 2019), ma non potevano sapere di acquistare un BFP già modificato e variato in maniera incompleta, perché doveva essere onere di Poste emettere quel titolo in maniera esatta (cosa che non accadeva dato che i saggi venivano modificati solo fino al 20° anno).
Per giustificare questa tesi, tutti i Giudici indicavano correttamente una sentenza della Cassazione a Sezioni Unite, chiamata ad esprimersi nel 2007 su un caso analogo: ossia l’emissione di un BFP su un vecchio modulo che riportava le vecchie condizioni. In quel caso la Cassazione aveva affermato che andava tutelato il legittimo affidamento e che, quindi, dovevano prevalere le condizioni riportate sul titolo cartaceo perché l’ignaro risparmiatore non poteva sapere che gli veniva venduto un BFP già modificato da un precedente DM.
Ebbene, nel febbraio del 2022 la Corte di Cassazione, chiamata a decidere sui BFP serie Q/P, ha negato l’applicazione dei principi espressi dai colleghi nel 2007. Il motivo? Il caso del 2007 verteva su un BFP che non aveva alcun timbro e quindi il risparmiatore in quel caso era stato “completamente ingannato” dalle vecchie condizioni che non erano state aggiornate in nessuna parte del titolo.
Per i BFP serie Q/P, invece, la prima sezione civile della Cassazione (ordinanza n. 4384 del 10/02/2022, relatore Di Marzio, gemella delle successive nn. 4748, 4751 e 4763, recentemente confermate dalla VI sezione) ha affermato che l’aver impresso un timbro che modificava la serie, da P a Q/P, e l’aver apposto sul retro un altro timbro recante i nuovi saggi, era sufficiente ad evitare la formazione di un legittimo affidamento in capo al risparmiatore; questo perché, dice la Cassazione, aver apposto un timbro che variava i saggi fino al 20° e non anche fino al 30° anno, non è un errore da parte di Poste Italiane ma una semplice “imperfezione materiale” di un timbro non sufficientemente grande e quindi adatto a coprire tutta la vecchia tabellina.
Si, avete capito bene: secondo la Cassazione, benché il Decreto Ministeriale obbligasse la variazione tutti i saggi (dal 1° al 30°), il comportamento di Poste non sarebbe censurabile alla stregua del caso del 2007, perché stavolta sarebbero stati apposti dei timbri semplicemente non della giusta grandezza.
Chiaramente non servono raffinati giuristi per obiettare che: “il problema non è la grandezza, bensì il fatto che il timbro di Poste variava i saggi solo fino al 20° anno, lasciando scoperti gli ultimi 10 anni secondo il vecchio rendimento”. Può apparire paradossale ma, purtroppo, proprio sulla base di questa assurda motivazione, al momento la Cassazione sta bocciando tutti i ricorsi che arrivano a Roma, condannando i risparmiatori anche al pagamento delle spese processuali.
Questo è solo uno dei danni collaterali provocati dalle recenti decisioni della Cassazione. Infatti adesso:
- al contrario di prima, la maggioranza della giurisprudenza di merito si esprime a favore di Poste, perché sono pochissimi i Giudici che hanno il coraggio di motivare le loro decisioni in senso opposto alla Cassazione;
- a causa di ciò, molti risparmiatori che avevano azionato delle vertenze contro l’ente postale, e che nel corso del primo grado avevano ottenuto giustizia e perfino il pagamento del dovuto da parte di Poste, dato che quest’ultima ha impugnato sistematicamente in appello le decisioni a favore dei risparmiatori, quest’ultimi, nella consapevolezza di rischiare di dover restituire non solo i maggiori interessi già pagati ma pure le spese legali del secondo e del terzo grado di giudizio, hanno deciso di restituire quanto ricevuto e rinunciare definitivamente ai contenziosi;
Ergo, grazie alle decisioni della Cassazione al momento chi vorrebbe iniziare una nuova vertenza è scoraggiato, mentre chi ha una vertenza in atto è indotto a rinunciarvi per non subire grossi danni economici. Per Poste Italiane (cioè Cassa Depositi e Prestiti, ossia dove lo Stato custodisce miliardi degli italiani) una vittoria di diversi milioni di euro (interessi che non vengono pagati ma trattenuti) mentre per i risparmiatori una perdita di pari importo: soldi sudati che si pensava fossero stati promessi dallo Stato italiano ma che, invece, vengono negati dalla Cassazione che preferisce tutelare le casse pubbliche (che dovrebbero essere quelle degli italiani e non quelle dell’istituto dove gli italiani hanno affidato provvisoriamente i loro risparmi). Peraltro, i maggiori interessi delle serie Q/P non manderebbero certo in dissesto Cassa Depositi e Prestiti, che ha spalle sufficientemente larghe per far fronte a spese impreviste all’interno del proprio bilancio.
Ma quali prospettive per il futuro? E’ davvero tutto finito?
Ormai è trascorso un anno e nessuna sezione della Cassazione ha deciso di esprimersi contro le ordinanze della prima sezione, creando quindi un contrasto che possa coinvolgere le Sezioni Unite, esattamente come accaduto nel 2007. Sarebbe auspicabile che avvenisse tutto ciò, perché i risparmiatori avrebbero diritto a ricevere una motivazione ben più logica per rinunciare ad un legittimo affidamento che è durato 30 anni e che è risultato tradito a causa di un comportamento errato da parte di Poste.
L’auspicio, semmai, è che le Sezioni Unite diano ragione ai risparmiatori esattamente come avevano fatto nel 2007, perché, posto che in entrambi i casi si verte su BFP emessi DOPO il Decreto Ministeriale peggiorativo degli interessi, non può esistere un legittimo affidamento di serie A (quello riposto nei vecchi moduli intonsi, non aggiornati) e un legittimo affidamento di serie B (quello riposto nei vecchi moduli parzialmente aggiornati). In entrambi i casi la legge imponeva l’emissione di titoli completamente aggiornati, quindi non dovrebbero sussistere differenze interpretative tra un titolo non aggiornato e uno parzialmente aggiornato. In entrambi i casi sussiste un errore: clamoroso nel primo, comunque evidente nel secondo. La decisione di far passare in cavalleria il secondo errore parlando di “imperfezione materiale” assume il sapore di una presa in giro.
Al momento, benché qualche sparuto Giudice di merito stia andando coraggiosamente contro i principi della Cassazione, e benché l’Arbitrato Bancario e Finanziario stia continuando a dare torto a Poste, alcuni risparmiatori hanno portato la problematica dinanzi alla Corte Europea dei diritti dell’uomo, che ha ritenuto il ricorso ammissibile, senza però entrare nel merito. La decisione, che arriverà nei prossimi anni, nel caso in cui dovesse condannare lo Stato Italiano, obbligherebbe i Giudici nazionali ad adeguarsi e cambiare nuovamente orientamento (sempre che non ci pensino prima le Sezioni Unite o, magari, la Corte Costituzionale chiamata a dirimere un incidente di costituzionalità che, però, deve essere avallato da un Giudice di merito).
Tuttavia, dato che i tempi della giustizia sono molto lunghi, al momento Poste incassa tantissime vittorie e quindi salva milioni di euro. Una grandissima delusione per tutti i risparmiatori che si sentono traditi e che difficilmente affideranno ancora i loro risparmi a Poste Italiane.
Ciò detto, dato che la prescrizione scatta solo dopo 10 anni dall’incasso o dalla scadenza del titolo non incassato, entro questo termine i più fiduciosi che non abbiano ancora azionato una vertenza possono interrompere la prescrizione (quindi far ripartire da capo i 10 anni entro cui rivendicare i maggiori interessi) con una raccomandata (Roma, Viale Europa 190) o a mezzo PEC (poste@pec.posteitaliane.it) dove si dovrà contestare la problematica indicata in questo approfondimento.
La speranza è che presto o tardi venga fatta realmente giustizia, anche se saranno in pochi a poterne beneficiare.