Nulla di fare. Giudici diversi, stesse conclusioni. La prima sezione civile della Cassazione non cambia orientamento sui buoni fruttiferi postali Q/P.
La questione riguarda l’ormai nota diatriba dei maggiori interessi pretesi dai risparmiatori sui rendimenti degli ultimi dieci anni, dato che i titoli Q/P furono stampati da Poste Italiane sui vecchi moduli P e presentavano una tabella che aggiornava i saggi soltanto per i primi venti anni, lasciando inalterati i rendimenti in Lire per gli ultimi dieci anni (Il risparmio tradito: perché al momento la Cassazione nega i maggiori interessi sui BFP serie Q/P).
Nella decisione n. 22619 del 26 luglio 2023, i nuovi giudici della prima sezione civile hanno ribadito i motivi per i quali i risparmiatori non possono pretendere i maggiori interessi, ma non solo: gli Ermellini hanno precisato il ragionamento giuridico sotteso alle precedenti decisioni (Cass. 10 febbraio 2022, n. 4384, Cass. 14 febbraio 2022, n. 4748, Cass. 14 febbraio 2022, n. 4751, Cass. 14 febbraio 2022, n. 4763, confermate da Cass. 3 gennaio 2023, n. 87, Cass. 4 gennaio 2023, n. 122 e Cass. 11 febbraio 2023, n. 567) integrandolo con passaggi motivazionali che – sebbene non condivisi dallo scrivente – risultano meglio argomentati dei precedenti.
Sostiene la Suprema Corte che nel caso in esame (BFP serie Q/P) rispetto alla fattispecie controversa nella decisione a Sezioni Unite del 2007 (BFP serie AA) “si controverte non della presenza di una tale tabella e del radicale contrasto di essa con la previsione del decreto ministeriale che regola l’emissione dei titoli, ma di una singola previsione (quella relativa ai tassi dell’ultimo decennio) ricavata da una tabella che è sostituita, sul titolo, da altra tabella. Non entra quindi immediatamente in gioco il conflitto tra le distinte discipline dei rendimenti che sono desumibili, rispettivamente, dal decreto ministeriale e dal titolo (ipotesi, questa, presa in esame dalla richiamata pronuncia delle Sezioni Unite). Viene prima in questione il significato che possa accordarsi ad indicazioni, presenti nel contesto del buono fruttifero, che concernono un particolare aspetto del rapporto: quello relativo agli interessi da corrispondersi dal ventunesimo al trentesimo anno di vita del titolo. In tal senso, i buoni della serie «Q/P» pongono, anzitutto, e per quanto qui interessa, una questione di natura interpretativa”.
In altri termini, secondo la Cassazione la problematica dei BFP serie Q/P verte sulla esatta interpretazione delle clausole che le parti volevano dare al contratto stipulato (il buono cartaceo) e, in particolare, sull’applicazione dei rendimenti degli ultimi dieci anni secondo la disciplina dei titoli Q/P o di quella dei vecchi titoli P.
Come ricordato da Cass. Sez. U. 15 giugno 2007, n. 13979, la possibilità che il contenuto dei diritti spettanti ai sottoscrittori dei buoni postali subisca, medio tempore, variazioni per effetto di eventuali sopravvenuti decreti ministeriali volti a modificare il tasso degli interessi originariamente previsto «non autorizza a svalutare totalmente la rilevanza delle diciture riportate sui buoni stessi anche quando […] in corso di rapporto non è intervenuto alcun nuovo decreto ministeriale concernente il tasso degli interessi e nessuna modificazione si è quindi prodotta rispetto alla situazione esistente al momento della sottoscrizione dei titoli». E tuttavia, afferma la Cassazione, altro è tener conto del dato testuale del titolo, altro è enfatizzarne la portata in contrasto col canone ermeneutico di cui all’art. 1362 c.c.: norma che, come è noto, impone di interpretare il contratto indagando quale sia stata l’intenzione delle parti senza limitarsi al senso letterale delle parole.
Per la soluzione della problematica in esame assume centralità il senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate nel contratto: il rilievo di queste deve essere tuttavia verificato alla luce dell’intero contesto contrattuale (Cass. 8 giugno 2018, n. 14882; Cass. 26 febbraio 2009, n. 4670; Cass. 28 maggio 2007, n. 12400; Cass. 22 febbraio 2007, n. 4176; Cass. 22 dicembre 2005, n. 28479). Come è stato efficacemente osservato, precisano i giudici di legittimità, solo la lettura dell’intero testo contrattuale consente una corretta comprensione della convenzione e, suo tramite, della comune intenzione delle parti, mentre l’enucleazione di singole parole può comportare lo stravolgimento del significato della clausola con particolare riferimento alle pattuizioni limitative dell’efficacia del negozio che, in presenza di un processo ermeneutico frammentato, possono amplificare o ridurre la portata dell’accordo (Cass. 8 febbraio 2021, n. 2945).
In tal senso, specificano gli Ermellini – che non parlano più di “dimensioni dei timbri” – “non è conforme ai richiamati principi una interpretazione del testo negoziale che, obliterando la manifestata volontà, desumibile dalle apposite stampigliature, di far rientrare il titolo nella serie «Q/P» e di assegnare al medesimo, per i primi venti anni, i correlati rendimenti, pretenda di conferire una univoca e assorbente accezione di significato alla presenza, nel testo del buono, di una previsione (quanto alla misura degli interessi maturandi a partire dal ventunesimo anno) che è parte della tabella associata alla serie «P». Tale soluzione ermeneutica finisce per parcellizzare il dato testuale: non tiene infatti conto che la richiamata tabella risulta sostituita da una diversa griglia dei rendimenti, rispetto alla quale l’elemento che si pretende di valorizzare risulta essere oltretutto palesemente eccentrico.
Infatti, la nuova stampigliatura consta dell’indicazione dei tassi in valori percentuali, mentre i rendimenti dell’ultimo decennio, che si vorrebbero applicare, seguono il diverso criterio dei valori monetari assoluti adottato nella stesura dell’intera tabella della serie «P», cui non appartiene il buono. In altri termini, se è incontestabile che nel riquadro dei rendimenti risultanti dalla stampigliatura sovrapposta alla precedente tabella è assente alcuna specifica indicazione dei tassi relativi all’ultimo decennio, non per questo risulta giustificata un’operazione interpretativa che finisca per deformare il senso della volontà negoziale, isolando un dato che è integrato nella vecchia tabella (riferita a una serie di buoni cui si è deliberatamente escluso appartenga quello in contestazione) e che si pone in continuità coi rendimenti ivi indicati, non con quelli della serie «Q/P». L’elemento di anomalia è tanto più percettibile ove si consideri che, come rettamente rilevato dal Tribunale, per i titoli della serie «Q/P» l’art. 5 del d.m. 13 giugno 1986 imponeva proprio una stampigliatura «recante la misura dei nuovi tassi», e non l’indicazione delle maggiorazioni dei valori monetari”.
Quello che vuole dire la Cassazione è che, benché sia evidente la difformità delle due tabelle (la vecchia con i rendimenti più alti in Lire e la nuova con i saggi più bassi indicati in percentuale), la reale volontà negoziale offerta dall’ente postale sarebbe stata quella di vendere un titolo con i saggi modificati per tutti gli anni, ivi inclusi gli ultimi dieci. Ergo, aver lasciato scoperto l’ultimo scaglione (meglio ancora, aver dotato gli uffici di timbri non completi, dato che si fermavano ai primi venti anni) non è indicativo di una volontà di pagare secondo i vecchi rendimenti per gli ultimi dieci anni perché quest’ultimi sono indicati in Lire e non in tassi percentuali, come, invece, indica il Decreto Ministeriale.
A questo punto la Cassazione scrutina anche l’interpretazione del contratto secondo il canone della buona fede. Ed afferma che negare rilievo all’elemento letterale (il dato testuale del titolo) non finisce, del resto, per dare ingresso a un’interpretazione contraria a buona fede: “Per certo, l’elemento letterale deve sempre essere riguardato alla stregua degli ulteriori criteri ermeneutici, tra cui quello dell’interpretazione secondo buona fede ex art. 1366 c.c. (Cass. 17 novembre 2021, n. 34795; Cass. 14 settembre 2021, n. 24699). La regola di cui all’art. 1366 c.c., secondo cui il contratto deve essere interpretato secondo buona fede, impone tuttavia di analizzare le espressioni usate dalle parti contraenti stabilendo quale sia il significato obbiettivo sul quale le stesse, in relazione alle circostanze concrete, potevano e dovevano fare ragionevole affidamento (Cass. 20 luglio 2000, n. 9532), con la conseguenza che non possono perorarsi interpretazioni che pretendano di ricavare il detto affidamento da elementi letterali non significativi avendo riguardo al più ampio contesto del negozio”.
Qui la Cassazione afferma che il dato testuale, ossia la presenza dei vecchi rendimenti in Lire, non è così decisivo da generare una buona fede tutelabile in giudizio dato che dagli altri elementi testuali del titolo, ossia i timbri Q/P, il nuovo timbro con i dati percentuali e il Decreto Ministeriale, si ricava una interpretazione differente che ha una maggiore incisività e chiarezza rispetto alla reale volontà negoziale delle parti. In altre parole, dei singoli elementi letterali non possono essere tutelabili secondo buona fede se il contesto generale del contratto va tutto in un’altra direzione.
Successivamente, gli Ermellini correggono il tiro circa l’argomentazione normativa con la quale i precedenti colleghi avevano giustificato l’applicazione dei nuovi saggi, ossia il congegno sostitutivo di cui all’art. 1339 c.c.: “In effetti, in tema di buoni postali, il congegno sostitutivo di cui all’art. 1339 c.c. è destinato ad operare con esclusivo riguardo alle variazioni del saggio d’interesse «disposte con decreto del Ministro per il tesoro, di concerto con il Ministro per le poste e le telecomunicazioni, da pubblicarsi nella Gazzetta Ufficiale» che siano «estese ad una o più delle precedenti serie» (art. 173, comma 1, d.P.R. n. 156/1973); a tal fine è stato previsto, come in precedenza rilevato, che per i titoli i cui tassi siano stati modificati dopo la loro emissione gli interessi vengano corrisposti non più sulla base della sola tabella riportata a tergo dei buoni, ma sulla base di tale tabella «integrata con quella che è a disposizione dei titolari dei buoni stessi presso gli uffici postali» (art. 173 cit., comma 3). Dunque, la prevalenza del dato testuale portato dai titoli rispetto alle prescrizioni ministeriali intervenute successivamente all’emissione è, in questa ipotesi, da escludere a fronte all’inequivoco dato testuale dell’art. 173: come ricordato dalle Sezioni Unite, tale articolo contempla un «meccanismo di integrazione contrattuale, riferibile alla disposizione dell’art. 1339 c.c. destinato ad operare per effetto della modifica, da parte della pubblica amministrazione, del tasso di interesse vigente al momento della sottoscrizione del titolo» (Cass. Sez. U. 11 febbraio 2019, n. 3963, cit., in motivazione). La disciplina sostituiva non opera, invece, con riguardo alle condizioni operanti al momento della sottoscrizione: si è già dato conto del principio, enunciato da Cass. Sez. U. 15 giugno 2007, n. 13979, secondo cui ove il buono indichi rendimenti difformi da quelli previsti dalle prescrizioni ministeriali deve prevalere quanto risultante dal titolo, giacché il titolo riproduce il contenuto di un accordo negoziale. Ciò sta a significare che le norme che disciplinano i tassi dei buoni di nuova emissione non hanno portata cogente; esse soccombono, infatti, a fronte di pattuizioni di diverso tenore”.
L’inattuabilità di una sostituzione ex art. 1339 c.c. della misura degli interessi convenuti contrattualmente non esclude, tuttavia, che la disciplina del buono di nuova emissione di una determinata serie, che sia carente di alcune indicazioni quanto ai rendimenti, possa essere integrato dalle previsioni normative che disciplinano i tassi dei titoli appartenenti a quella stessa serie. Gli Ermellini, quindi, modificando l’interpretazione dei precedenti colleghi, ritengono che l’integrazione operante nel caso di specie non sia quella cogente di cui all’art. 1339 c.c., operante allorquando la regolamentazione normativa si sovrappone alla diversa volontà delle parti, ma quella suppletiva di cui all’art. 1374 c.c., attraverso cui il contenuto del rapporto viene determinato in mancanza di una diversa volontà delle parti.
Secondo la Cassazione “l’integrazione opera, naturalmente, avendo riguardo alle prescrizioni del provvedimento ministeriale: ma è indubbio che, quale che sia la natura di tale atto, venga in questione una integrazione ad opera della legge, visto che il d.m. 13 giugno 1986 ripete la sua autorità dall’art. 173, comma 1, d.P.R. n. 156/1973, il quale abilita l’autorità ministeriale a fissare il saggio d’interesse dei buoni postali fruttiferi (cfr., in motivazione, se pure nella diversa prospettiva della sostituzione di clausole nulle, le citt. Cass. 10 febbraio 2022, n. 4384, Cass. 14 febbraio 2022, n. 4748, Cass. 14 febbraio 2022, n. 4751 e Cass. 14 febbraio 2022, n. 4763). Con ciò resta superata anche la censura, di cui al terzo motivo, fondata sull’assenza di terzietà del soggetto da cui promana la norma integrativa del contratto (censura da disattendersi, del resto, alla luce dell’ulteriore rilievo per cui l’inserzione dei tassi fissati per decreto ministeriale è espressamente contemplata dal comma 3 dell’art. 173 cit.). Una integrazione suppletiva, e non cogente, si giustifica, con riguardo ai buoni, in quanto, secondo l’insegnamento delle Sezioni Unite del 2007, le previsioni dei decreti ministeriali non prevalgono sul contenuto dell’accordo (salvo il caso, che qui non interessa, dello ius variandi operante con riguardo ai tassi in un momento successivo all’emissione dei buoni): onde le dette previsioni hanno natura dispositiva. L’integrazione trova, poi, una propria concreta ragion d’essere, in fattispecie quale quella in esame, stante la mancanza, nel senso sopra chiarito, di un’apposita regolamentazione di una parte dei rendimenti del buono trentennale: va qui rammentata la giurisprudenza di questa Corte secondo cui il presupposto dell’integrazione di cui all’art. 1374 c.c. è proprio l’incompleta o ambigua espressione della volontà dei contraenti (così Cass. 21 marzo 2014, n. 6747; cfr. pure, in tema: Cass. 14 giugno 2002, n. 8577; Cass. 17 giugno 1994, n. 5862; Cass. 14 marzo 1983, n. 1884)”.
Peraltro, l’integrazione suppletiva non contrasta con quanto previsto dall’art. 173, comma 3, d.P.R. n. 156/1973, secondo cui gli interessi vengono corrisposti «sulla base della tabella riportata a tergo dei buoni». La disposizione preserva l’affidamento del risparmiatore su quanto trascritto nei buoni da lui acquistati, confermando che quanto ivi enunciato prevale sul difforme dettato del decreto ministeriale che fissa i rendimenti; appare invece irragionevole e contrario a una interpretazione della norma che sia rispettosa dell’art. 47 Cost., sulla tutela del risparmio, ritenere che, a fronte di una lacuna del titolo nella determinazione dei tassi per un dato periodo, la regolamentazione posta dal detto decreto resti inoperante e nulla sia conseguentemente dovuto, per quell’arco temporale, al risparmiatore. Sintomaticamente, nemmeno Poste Italiane ha sostenuto ciò nel presente giudizio.
“In conclusione, se pure deve escludersi che i saggi di interesse fissati con decreto del Ministro per il tesoro, di concerto con il Ministro per le poste e le telecomunicazioni, si sostituiscano ai rendimenti figuranti sul buono di nuova emissione, non vi è motivo di negare che quegli stessi saggi di interesse ― aventi «effetto per i buoni di nuova serie», a norma dell’art. 173, comma 1, d.P.R. n. 156/1973 ― possano completare, attraverso un procedimento di eterointegrazione, il regolamento contrattuale che nulla disponga quanto ai rendimenti dei titoli di quella serie riferiti a un dato periodo”.
Sulla base di quanto sin qui esposto, la Suprema Corte di Cassazione giunge alla enunciazione dei seguenti principi di diritto che – confermando e in parte correggendo i precedenti orientamenti – dovranno essere applicati da tutte le altre sezioni della Cassazione, salvo nuovi ma improbabili orientamenti di senso opposto:
«Poiché l’interpretazione del testo contrattuale deve raccordare il ‘senso letterale delle parole’ alla dichiarazione negoziale nel suo complesso, non potendola limitare a una parte soltanto di essa, l’indicazione, per i buoni postali della serie ‘Q/P’, di rendimenti relativi alla serie ‘P’ per l’ultimo periodo di fruttuosità del titolo non è in sé decisivo sul piano interpretativo, in presenza della stampigliatura, sul buono, di una tabella sostitutiva di quella della serie ‘P’, in cui erano inseriti i detti rendimenti: tanto più ove si consideri che la tabella in questione adotta una modalità di rappresentazione degli interessi promessi che risulta eccentrica rispetto a quella di cui alla precedente tabella, così da rendere evidente l’assenza di continuità tra le diverse previsioni.
«In presenza di una incompleta o ambigua espressione della volontà delle parti quanto ai rendimenti del buono postale di nuova emissione rientrante nella previsione dell’art. 173 d.P.R. n. 156/1973, opera una integrazione suppletiva che consente di associare al titolo i tassi contemplati, per la serie che interessa, dal decreto ministeriale richiamato dal primo comma del detto articolo».
Per tutti i procedimenti in corso il rischio è quello di arrivare al terzo grado di giudizio e subire una probabilissima soccombenza che, laddove riformasse le precedenti decisioni favorevoli al risparmiatore (ormai sempre più sporadiche), vorrebbe dire non solo restituire i maggiori interessi ma pure pagare le spese legali di tutti i tre gradi di giudizio.