Con la recentissima sentenza n. 3963 del 2019, la Corte di Cassazione a Sezioni Unite Civili ha messo definitivamente un punto sull’annosa questione riguardante i rendimenti dei buoni fruttiferi postali di metà-fine anni 80′. La questione è giunta per la seconda volta dinanzi al Supremo Consesso, dodici anni dopo una precedente pronuncia del 2007 che ha fatto partire una pioggia di ricorsi in tutta Italia. Come spesso accade, infatti, lo “spioncino” aperto dalle Sezioni Unite dodici anni fa è stato trasformato e interpretato in un “portone” da una serie di ricorsi che, a seguito della pronuncia citata in apertura, non avranno più ragione d’esistere.
La sentenza a Sezioni Unite n. 13979/2007.
Come anticipato, tutto è partito dalla prima sentenza dinanzi alla Suprema Corte di Cassazione a Sezioni Unite. Nel 2007, infatti, gli Ermellini venivano chiamati a giudicare una particolare questione riguardante i rendimenti di una categoria di buoni postali – serie AA – sottoscritti nel giugno del 1986 per un importo pari a 7.000.000,00 di Lire. Quei buoni, stando alla dicitura figurante sui titoli, assicuravano ai sottoscrittori interessi tali da comportare la triplicazione del capitale dopo otto anni, ed in base a tale calcolo i ricorrenti avevano riscosso la somma di L. 21.000.000.
Tuttavia un D.M. emanato sin dal 16 giugno 1984 aveva, invece previsto che fosse possibile conseguire quel medesimo risultato finanziario solo dopo il decorso di nove anni: donde la pretesa restitutoria azionata dall’Ente Poste, sul presupposto del carattere indebito dei maggiori interessi lucrati dai sottoscrittori per effetto dell’anticipata riscossione.
La questione è chiara: i sottoscrittori dei buoni, sulla base della stampigliatura presente sui titoli cartacei, pretendevano di ricevere i loro soldi dopo 8 anni. Le Poste, invece, lamentavano il fatto che un precedente Decreto Ministeriale aveva allungato le tempistiche di rimborso. Di qui la disputa giudiziale giunta fino alle Sezioni Unite che hanno dato ragione ai sottoscrittori dei buoni sulla base dei seguenti principi di diritto.
Nella sentenza in esame si muove in primo luogo dalla qualificazione dei buoni postali fruttiferi, come già accolta da Cass. n. 27809/2005, quali titoli di legittimazione, riconducibili alla previsione dell’art. 2002 c.c. Si tratterebbe, quindi, non di veri e propri titoli di credito, il ché giustificherebbe la svalutazione del loro tenore letterale, ove difforme da quanto prescritto dal decreto ministeriale in base al quale detti buoni sono stati emessi, e renderebbe indebita la percezione, da parte dei sottoscrittori, di somme corrispondenti alle indicazioni figuranti sui titoli ma non al contenuto del decreto.
Tuttavia, ritiene la S.C. che “il rilievo concernente la natura giuridica del buono postale non appare decisivo” (…), in quanto ”una volta affermato che a quei buoni non si applicano i principi dell’autonomia causale, dell’incorporazione e della letteralità, da cui normalmente sono contraddistinti i titoli di credito, resta ancora da stabilire su quali basi si sia instaurato… il rapporto giuridico intercorrente tra l’amministrazione postale ed il sottoscrittore dei buoni fruttiferi, nonché quale sia, e da dove si desume, il contenuto effettivo di tale rapporto”.
Ciò posto, ricondotti i servizi di banco posta, tra cui quello di emissione di buoni postali fruttiferi, a rapporti contrattuali soggetti al regime del diritto privato, in quanto del tutto privi di lineamenti autoritativi, giacché, per struttura e funzione, essi sostanzialmente non si discostano dagli analoghi servizi resi sul mercato delle imprese bancarie (cfr. in tal senso, esplicitamente, Corte Cost. n.463/1997), la Corte prosegue osservando che l’art. 173 dell’allora vigente codice postale (ancora applicabile al caso di specie perché il rapporto in esame era già in essere al momento della entrata in vigore della normativa successiva, che ha abrogato tale disposizione) prevedeva che le variazioni del tasso d’interesse di buoni postali fruttiferi, disposte con decreto del Ministro del Tesoro di concerto con quello delle Poste e Telecomunicazioni, da pubblicarsi nella Gazzetta ufficiale, non solo avessero effetto per i buoni di nuova emissione, ma potessero essere estese anche ai buoni in precedenza già emessi (primo comma); prevedeva anche che questi buoni si consideravano rimborsati e convertiti in titoli della nuova serie (comma 2). Il comma 3 del medesimo articolo precisava, poi, che gli interessi sarebbero stati corrisposti sulla base della tabella riportata a tergo dei buoni, la quale, però, peri titoli i cui tassi fossero stati modificati dopo l’emissione, era da intendersi integrata da altra tabella (destinata evidentemente a riportare le accennate modifiche) messa a disposizione presso gli uffici postali.
Rileva quindi la Suprema Corte che: “Alla stregua di questo quadro normativo deve certo convenirsi circa la possibilità che il contenuto dei diritti spettanti ai sottoscrittori dei buoni postali subisse, medio tempore, variazioni per effetto di eventuali sopravvenuti decreti ministeriali volti a modificare il tasso degli interessi originariamente previsto; e deve pure convenirsi, di conseguenza, sulla necessità in casi siffatti di un’integrazione extra testuale del rapporto”.
Ciò tuttavia, prosegue la Cassazione a Sezioni Unite, “non autorizza a svalutare totalmente la rilevanza delle diciture riportate sui buoni stessi anche quando – come accaduto nella fattispecie in esame – in corso di rapporto non è intervenuto alcun nuovo decreto ministeriale concernente il tasso degli interessi e nessuna modificazione si è quindi prodotta rispetto alla situazione esistente al momento della sottoscrizione dei titoli. Al contrario, il fatto che la legge imponesse espressamente di procedere al rimborso degli interessi sulla base della tabella riportata a tergo dei buoni sottoscritti dal risparmiatore, mentre solo in caso di sopravvenuta modifica per decreto di quei tassi si sarebbe dovuto tener conto anche dell’ulteriore tabella da mettere a disposizione presso gli uffici postali; le già descritte modalità di emissione e di successivo rimborso dei titoli, specularmente concepite in modo da garantire la corrispondenza dell’operazione ai dati scritturali risultanti anche dai titoli medesimi; la circostanza che lo stesso D.M. 16 giugno 1984, con il quale era stata disposta l’ultima variazione dei tassi d’interesse precedente all’emissione di cui è causa, si fosse fatto carico di imporre agli uffici emittenti l’obbligo di contrassegnare i buoni di nuova emissione con una sigla diversa dai precedenti, pur quando fossero stati utilizzati moduli preesistenti, espressamente indicando sul documento il differente regime cui essi erano soggetti: sono tutti elementi che persuadono di come il vincolo contrattuale tra emittente e sottoscrittore dei titoli fosse destinato a formarsi proprio sulla base dei dati risultanti dal testo dei buoni di volta in volta sottoscritti”.
Dunque la questione è chiara: le Sezioni Unite nel 2007 hanno stabilito che in presenza di buoni fruttiferi postali riportanti “vecchie stampigliature” (=vecchie condizioni, evidentemente più favorevoli al cliente) – all’atto dell’emissione già modificate da un precedente decreto ministeriale e successivamente non modificate da altri provvedimenti legislativi – debbano prevalere le condizioni riportate a tergo del buono.
Secondo il Supremo Consesso del 2007, infatti, sarebbe stato obbligo dell’ufficio postale emittente contrassegnare i buoni da emettere con timbri dai quali desumere il cambiamento di serie o le diverse (perché più sfavorevoli al cliente) condizioni vigenti già in quel determinato momento storico nel caso in cui fossero stati utilizzati, come nel caso in esame, dei moduli “vecchi” riportanti le “vecchie” condizioni.
Il casus belli della succitata sentenza, quindi, può essere applicato analogamente a tutti quei buoni fruttiferi postali successivi al giugno del 1986 (ultimo D.M. peggiorativo dei precedenti rendimenti) che riportano due stampigliature. Quella originale posta a tergo del buono ed una seconda apposta con un timbro dall’ufficio postale.
Infatti, Poste Italiane ha aggiornato tali BFP in modo tutt’altro che preciso o chiaro, ingenerando una falsa aspettativa nei confronti dei clienti dato che, dopo aver modificato la serie del buono su entrambi i lati (nell’immagine qui sopra un buono trentennale del 1989 “da P a Q/P”) si è limitata ad apporre a tergo un timbro riportante la modifica dei relativi tassi d’interesse soltanto per i primi 20 anni, tacendo del tutto sugli ultimi 10 anni, per i quali i clienti facevano legittimo affidamento su quanto riportato originariamente dal buono, ossia che “dopo i primi 20 anni il buono avrebbe maturato un rendimento pari a £ Tot., più lire Tot. per ogni successivo bimestre maturato fino al 31 dicembre del 30° anno solare successivo a quello di emissione” e non su quanto stabilito dal precedente D.M. che fissava il rendimento al 12% anche per gli ultimi 10 anni.
La differenza non è poca perché, nel caso in esame, al netto della rivalutazione ISTAT e trattenute fiscali, il buono da Lire 5.000.000,00 dovrà essere rimborsato per un controvalore pari a circa € 56.000,00 e non € 28.000.000,00 come invece pretenderebbe Poste Italiane.
Del resto, la Suprema Corte di Cassazione a Sezioni Unite afferma chiaramente che: “Al richiedente il buono postale è stata prospettata un’operazione finanziaria connotata nei termini specificamente indicati nei buoni, compilati, firmati e bollati ed a lui consegnati dall’ufficio emittente, a fronte dei quali egli ha versato a quell’ufficio la somma corrispondente. Il sottoscrittore era edotto della possibile successiva variabilità del tasso d’interesse, per effetto di un’eventuale posteriore determinazione in tal senso dell’amministrazione pubblica, o doveva comunque presumersi che di ciò fosse edotto, trattandosi di un elemento normativo caratterizzante ormai quel genere di titoli. Ma non può in alcun modo ritenersi che dovesse essere edotto anche del fatto che – già in quel momento – le condizioni dell’emissione erano diverse da quelle che gli venivano prospettate mediante la consegna di titoli così formulati.
La discrepanza tra le prescrizioni ministeriali e quanto indicato sui buoni offerti in sottoscrizione dall’ufficio ai richiedenti può allora rilevare per eventuali profili di responsabilità interna all’amministrazione, ma non può far ritenere che l’accordo negoziale, in cui pur sempre l’operazione di sottoscrizione si sostanzia, abbia avuto ad oggetto un contenuto divergente da quello enunciato dai medesimi buoni”.
La Suprema Corte di Cassazione a Sezioni Unite, quindi, conclude il ragionamento affermando che “la funzione stessa dei BFP destinati ad essere emessi in serie, per rispondere a richieste di un numero indeterminato di risparmiatori, non tollererebbe un’interpretazione diversa: la quale, ponendo a carico dei sottoscrittori le conseguenze di un errore imputabile all’amministrazione e facendo sì che debba esser poi il medesimo sottoscrittore ad assumere l’onere di agire per l’eventuale risarcimento, per ciò stesso finirebbe per compromettere (o almeno per indebolire grandemente) le esigenze di tutela del risparmio diffuso cui si ispirano le norme sopra richiamate. Norme che – come si è visto – espressamente impongono di riportare sui titoli i dati reputati essenziali all’informazione del sottoscrittore, affinché egli possa compiutamente valutare i profili di convenienza e di rischio connessi al suo investimento, ma che verrebbero paradossalmente a porre le premesse di un’informazione fuorviante, ove si ammettesse che le condizioni alle quali l’amministrazione postale si obbliga possano essere invece, sin da principio, diverse da quelle espressamente rese note al risparmiatore all’atto stesso della sottoscrizione del buono.”
Pertanto, rimborsando un rendimento mediamente pari alla metà di quanto dovuto, Poste Italiane viola quanto sancito dai principi inerenti il legittimo affidamento, in virtù dei quali, a norma degli artt. 1175 e 1375 c.c., creditore e debitore devono comportarsi secondo le regole di correttezza ed il contratto dev’essere eseguito secondo buona fede.
Gli articoli 1175 c.c. e 1375 c.c. individuano dei precetti inderogabili, in quanto espressione dei doveri di solidarietà sociale prescritti dall’art. 2 Cost., il quale, operando come criterio di reciprocità, esplica la sua rilevanza nell’imporre a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra, a prescindere da specifici obblighi contrattuali o da quanto espressamente stabilito da singole norme di legge.
Se sei in possesso di buoni fruttiferi postali emessi dopo il giugno del 1986, non ancora riscossi, è ancora possibile recuperare quanto dovuto sulla base dei succitati e consolidati principi giuridici.
La sentenza a Sezioni Unite n. 3963/2019.
La precedente sentenza, letta ed interpretata spesso in modo fin troppo favorevole al cliente, ha dato il via ad un filone di ricorsi durato 12 anni. Già, perché sebbene il caso precedente riguardasse soltanto quei BFP riportanti vecchie stampigliature, aventi già un rendimento diverso all’atto dell’emissione e successivamente non modificati in peius, dinanzi ai Tribunali italiani sono giunti ricorsi anche per BFP successivamente modificati da altri decreti ministeriali.
E’ il caso dei titoli cartacei emessi nel 1982 e 1983 (modificati in peius dal D.M. del 1986) che hanno dato origine alla pronuncia di poche settimane fa. Il sottoscrittore, infatti, ricorreva dinanzi alle autorità giudiziarie italiane per vedersi riconoscere un rendimento doppio rispetto a quello liquidato da Poste Italiane. La motivazione è sempre la stessa: la vecchia stampigliatura che dovrebbe prevalere sempre. Gli Ermellini, però, sono di parere contrario ed affermano quanto segue.
“Il ricorrente, a sostegno della sua diversa, ma erronea, tesi interpretativa, richiama la pronuncia di queste Sezioni Unite n. 13979 del 2007. Si tratta di un riferimento anch’esso fuorviante. In quella controversia si discuteva infatti di una fattispecie diversa in cui si trattava di definire la rilevanza del tasso indicato nel fronte dei buoni fruttiferi postali in misura non conforme a quella precedentemente aggiornata dalla pubblica amministrazione con un decreto ministeriale del 1984. Le Sezioni Unite, in quella controversia, hanno affermato che la discrepanza tra le prescrizioni ministeriali e quanto indicato sui buoni offerti in sottoscrizione non può far ritenere che l’accordo negoziale, in cui l’operazione di sottoscrizione si sostanzia, abbia un contenuto divergente da quello enunciato dai titoli. Le Sezioni Unite non hanno affatto affermato, come pretenderebbe il ricorrente, la prevalenza in ogni caso del dato testuale portato dai titoli rispetto alle prescrizioni ministeriali intervenute successivamente alla emissione e ciò evidentemente non avrebbero potuto fare, e anzi hanno esplicitamente negato, a fronte all’inequivoco dato testuale dell’art. 173 del codice postale che prevedeva un meccanismo di integrazione contrattuale, riferibile alla disposizione dell’art. 1339 del codice civile e destinato ad operare, nei termini sopra descritti, per effetto della modifica, da parte della pubblica amministrazione, del tasso di interesse vigente al momento della sottoscrizione del titolo”.
Il Supremo Consesso, inoltre, taglia corto anche sull’obbligo informativo, doglianza spesso invocata dai sottoscrittori:
“Peraltro non può non rilevarsi come il riferimento alla tabella concernente la revisione dei tassi di interessi (nella specie quella operata con il decreto ministeriale del 13 giugno 1986) non costituisca affatto una parte della modalità di comunicazione all’interessato della intervenuta nuova prescrizione ministeriale. La conoscenza di tale circostanza è affidata dal legislatore alla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. La prescrizione della messa a disposizione della tabella integrativa ha la diversa finalità di consentire al risparmiatore di verificare presso l’ufficio postale l’ammontare del proprio credito per interessi all’esito dell’intervenuta variazione, anche ai fini del controllo della regolarità della riscossione e della sua conformità alla normativa vigente al momento della riscossione. E’ quindi erroneo ritenere, come fa invece il ricorrente, che tale prescrizione costituisca un obbligo informativo dalla cui osservanza dipenda la vincolatività della variazione per il risparmiatore“.
Le Sezioni Unite, quindi, concludono il ragionamento giuridico affermando come sia costante nella giurisprudenza di legittimità la qualificazione dei buoni fruttiferi postali come titoli di legittimazione sia pure con diversità di conseguenze quanto agli effetti di tale qualificazione (cfr. Cass. Civ. Sez. I n. 27809 del 16 dicembre 2005, Cass. Civ. Sezioni Unite, citata, n. 13979 del 15 giugno 2007 e Cass. Civ. Sez. I, ordinanza n. 19002 del 31 luglio 2017).
Ma, in ogni caso deciso dalla Suprema Corte, tale qualificazione ha giustificato la soggezione dei diritti spettanti ai sottoscrittori dei buoni postali alle variazioni derivanti dalla sopravvenienza dei decreti ministeriali, volti a modificare il tasso degli interessi originariamente previsto, e ha portato a ritenere che la modificazione trovasse ingresso all’interno del contratto mediante una integrazione del suo contenuto ab externo secondo la previsione dell’art. 1339 c.c. Una simile ricostruzione, quindi, è chiaramente incompatibile con l’applicazione della disciplina di tutela dei consumatori che si estrinseca nel meccanismo della sottoscrizione separata delle clausole vessatorie o nella imposizione di obblighi informativi personalizzati cui riconnettere facoltà e diritti intesi a garantire la libera autodeterminazione, nella specie, dei risparmiatori anche nel corso del rapporto.
D’altra parte, affermano gli Ermellini, il risparmiatore che non intendesse disinvestire, nonostante la sopravvenuta variazione del tasso di interesse, avrebbe ricevuto comunque, al momento dell’esercizio del suo diritto a riscuotere il proprio credito, l’importo degli interessi corrispondenti al tasso indicato nel titolo, sino alla data della variazione. Pertanto la variazione del tasso di interesse, disposta unilateralmente dalla pubblica amministrazione, secondo la disciplina applicabile ratione temporís, attribuiva sostanzialmente al risparmiatore il diritto al recesso e tutelava il suo affidamento sull’effettività del suo diritto a percepire gli interessi indicati dal titolo
Conclusioni
Dalla lettura di questo articolo è chiaro come non tutti i BFP possano “valere doppio”. Dato che la legge non ammette ignoranza, e con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale la variazione normativa viene messa a conoscenza di tutti, i sottoscrittori di BFP antecedenti il 13/06/1986, illo tempore, venivano messi a conoscenza di una possibile successiva variazione dei tassi d’interesse e veniva garantito loro il diritto di recesso.
Quindi se avevi sottoscritto un buono nel 1981,82,83,84,85, dovevi sapere che lo Stato poteva modificare in peius i tassi d’interesse, come poi effettivamente accaduto nel giugno del 1986. Per questo motivo non puoi pretendere di ricevere i rendimenti sulla base della vecchia stampigliatura, perché quella tabella è stata abrogata da una norma successiva (ad es. il D.M. del 13/06/1986, appunto, ultimo a modificare simili tassi).
Al contrario, se avevi sottoscritto un buono dopo il giugno del 1986, e questo buono recava una vecchia stampigliatura, allora potresti aver diritto a ricevere quanto prescritto dall’originaria tabella perché – dopo l’ultimo D.M. del 1986 – doveva essere compito di Poste Italiane rilasciare titoli cartacei correttamente aggiornati, non fuorvianti e che riportassero le condizioni vigenti in quel momento.
In questo caso, infatti, il sottoscrittore faceva affidamento su quanto scritto nel buono e non si poteva pretendere da esso la conoscenza della diversità di rendimenti già modificati in passato. Ergo soltanto in tale ipotesi prevale la tabella a tergo. In tutti gli altri casi, invece, il sottoscrittore dovrà accontentarsi di ricevere il rendimento ridotto.
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